Non abbiam bisogno di parole si intitola appropriatamente la doppia antologia che Ron pubblica per festeggiare mezzo secolo di musica. E infatti il cantautore ha scritto talmente tante canzoni da fare un profilo della sua visione della vita e dell'amore. Però a Ron piace anche diversificare e soprattutto parlare, così ha diviso il suo tour in tre diverse tranche; accompagnandosi in una con l'Ensemble Symphony Orchestra, in un'altra in trio acustico e in una terza in cui si racconta in un mix di musica e - appunto - parole. Il giro di concerti si apre a Fiesole (in provincia di Firenze) domani 18 giugno con l'orchestra sinfonica e vedrà in scaletta tutti i suoi successi e due pezzi inediti che faranno parte del suo nuovo album, in uscita a settembre.
Caro Ron c'è tanto da festeggiare.
«Soprattutto ora, dopo due anni che siamo stati obbligati a stare fermi. Sono molto carico e non vedo l'ora di salire sul palco».
Tre concerti differenti.
«Sì, con l'orchestra voglio dare colori più intensi alle mie canzoni; abbiamo provato a Firenze al Mandela Forum e sono rimasto molto soddisfatto del risultato; in trio acustico l'ambiente sarà più intimo e raccolto mentre la parte parlata sarà una specie di scambio di umori con il pubblico e sarà ancor più affascinante».
È in grande forma.
«Torno sul palco e sono l'uomo più felice del mondo; ogni spettacolo sarà una fotografia da conservare gelosamente. I concerti hanno un fascino speciale, sono sempre una sorpresa e un'emozione come ha dimostrato pochi giorni fa Elton John a Milano».
E poi c'è il nuovo disco.
«Sarà pieno di sorprese, con tanti amici. Pensi che non ho ancora deciso nemmeno il titolo, è una cosa importante che di solito faccio sempre all'ultimo minuto».
E c'è l'antologia.
«Un amarcord di mezzo secolo di musica, spero che i miei fan apprezzeranno. Viviamo un momento strano in cui i dischi non vendono, per cui uno potrebbe dire: Perché inciderli?. Invece anche l'album è una grande testimonianza e un momento creativo importante per chi ci lavora».
Cosa pensa di questi tempi artistici.
«In radio passano solo i giovanissimi. C'è molto rap ma è una musica che ha radici americane, non è uno stile nostro, comunque piace e funziona molto bene».
Lei come si definisce?
«Un cantautore alla vecchia maniera che guarda il presente e il futuro».
Lei come ha cominciato a proposito?
«Avevo 12 anni e ai tempi non c'erano Amici e tutti questi talent. Bisognava partecipare ai concorsi più strani per Voci Nuove e sperare di essere scelto. Io cantavo le canzoni di Gianni Morandi che all'epoca era il mio idolo. Un giorno, mentre ero a scuola a Pavia, mi chiamò un talent scout per dirmi che mi avevano scelto».
Che fortuna.
«Avrei dovuto cantare Occhi di ragazza scritta da Lucio Dalla ma la portò lo stesso Morandi al Festivalbar».
E allora?
«Io facevo le prima serate a Il Pellicano, un locale di moda a Garlasco prima che arrivassero Le Rotonde. Cantavo i brani di Morandi e il rock and roll dell'altro mio idolo: Celentano, con mio zio seduto dietro la batteria. Il mio classico era 24mila baci».
E il successo?
«Beh, Il gigante e la bambina e soprattutto Una città per cantare, la mia versione di un brano di Jackson Browne, uno dei più grandi cantautori della West Coast, anche lui ancora attivo in California. Quel brano acustico ha segnato il mio cambio di marcia".
Tornerebbe a Sanremo?
«Ricordo
ancora quando debuttai 16enne insieme a Nada con Pà diglielo a mà e il ricordo mi fa ancora tenerezza. Sono stato al Festival nel 2018 e da quello che ho visto ultimamente c'è più disponibilità oggi per un cantante come me».
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