Archeologo del Moderno e rianimatore del Classico, artista che riflette e fa riflettere sul tramonto di ogni civiltà, non solo della nostra. Sulle alte pareti del grande studio milanese, un po' fabbrica e un po' cattedrale, vedo sotto forma di enormi quadri la ruggine insonne che corrode le culture e anziché a Burri e a Kiefer, a cui spesso Luca Pignatelli viene avvicinato, penso a Splengler e ad Huntington, oltre che naturalmente a Neil Young. Catalogatore dell'Occidente, con aerei, navi, grattacieli, treni, anche nei momenti di scontro con l'Oriente (vedi la Battaglia di Lepanto presentata alla Biennale di Venezia 2009), capace di affrontare soggetti storici senza essere pompier, né kitsch, di raffigurare antichità greco-romane senza essere polveroso, né post-moderno, Pignatelli, 55 anni, è protagonista di un'arte più grande della vita e del presente asfittico. Figlio d'arte ossia di Ercole il quale, partito da Lecce in moto Gilera verso la Milano del bar Giamaica di Lucio Fontana e Ugo Mulas, a 82 anni è ancora felicemente attivo. Suonatore di tromba jazz, lettore vorace, guidatore di una Jaguar spider che parcheggia con impeto, senza paura di graffiarla, toccando la macchina davanti e quella dietro perché lo spazio, nell'arte e nella vita, non gli basta mai.
Oggi vige la teoria, formulata dal filosofo George Dickie, per cui va considerato arte qualsiasi manufatto ospitato nelle gallerie d'arte o nei musei di arte contemporanea...
«Io sono d'accordo. L'arte non è più riconducibile ai canoni dell'accademia, il collocamento dell'opera è molto importante, il contesto determina l'attenzione, fa entrare il visitatore in una dimensione diversa: poi sta a lui valutare se l'opera che ha davanti è una porcata oppure no».
Alcune tue opere sono interamente dipinte, altre sono tecniche miste che si avvalgono di fotografie: non sembri concedere alla tecnica un ruolo basilare.
«L'arte è innanzitutto un'idea. David Hockney, in polemica con Damien Hirst, all'ingresso di una sua mostra alla Royal Academy mise un cartello con scritto: Tutti i lavori qui presenti sono stati realizzati personalmente dall'artista. Ma Giotto a Padova aveva 40 collaboratori e pare che della Cappella degli Scrovegni abbia dipinto personalmente solo un terzo».
A proposito di criteri di valutazione, trovo tristissimo che oggi il valore di un artista sia determinato dalle aste.
«Dove tutto ha un prezzo, nulla ha un valore. Gli aspetti speculativi a me interessano poco, a me piacciono artisti che sono sottovalutati».
Non dirlo a me, con le edizioni Pulcinoelefante ho fatto un libricino d'arte, ogni copia conteneva una piccola tempera di Marta Sesana e veniva venduta a 15 euro.
«Ma è il prezzo di una pizza!».
La giovane arte italiana è messa così. Ammesso che esista un'arte contemporanea riconoscibile come italiana: esistono ancora confini nazionali nell'arte?
«È importante che non ci siano più, io sono per il genius loci nell'architettura, nei materiali (la pietra nei muri a secco del Salento...), nel cibo, nella lingua, ma nell'arte non voglio sentirmi dire: Che bravo artista italiano.... Anche se gli artisti tedeschi io li vedo che sono tedeschi...».
Tu sei per «l'art pour l'art» o secondo te l'arte deve prendere parte?
«Quando guardo un bel carboncino di Mirò non penso a Franco, mentre quando vedo Guernica penso alla guerra civile spagnola: sono valide entrambe le opzioni, un artista deve essere libero di fare quello che vuole».
A marzo una tua opera, Persepoli, è stata censurata dal Tefaf, la grande fiera di Maastricht, perché potenzialmente sgradita ai musulmani. Senti sull'arte occidentale la spada di Damocle della censura multiculturale?
«Non credo possa esistere spada di Damocle peggiore della censura terroristica, della minaccia, a volte latente, a volte improvvisamente reale, verso ogni provocazione che superi i limiti consentiti dall'integralismo».
L'immagine si salverà?
«Noi abbiamo i musei, prendi il Museo Egizio: gli Egizi non ci sono più ma l'approfondimento su di loro continua. Il negazionismo non è riuscito a negare la realtà dei campi di concentramento, l'iconoclastia non riuscirà a negare la realtà della figura. Insomma, credo nella funzione di custodia esercitata dai musei».
Tu nei musei sei presente?
«Ho un'opera molto importante al museo di Capodimonte, una grandissima tela di quasi sette metri x quattro, intitolata Pompei. Realizzata senza pittura, praticamente astratta, si trova sullo scalone d'onore, una posizione che mi lusinga moltissimo. Poi ho lavori agli Uffizi, alla Gam di Torino...».
Il pittore Daniele Galliano mi ha detto: «Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere». Non la critica, dunque, ma solo le opere. Quale tua opera ritieni destinata a durare nei secoli?
«Io credo in un sistema corale, credo che a determinare la durata di un artista siano diversi lavori, non uno solo. Se dovessi salvare una sola opera di Piero della Francesca sarei in difficoltà».
Se dovessi salvare una sola opera tua?
«Non so, i miei lavori li vedo tutti vivi, se me ne ritorna indietro uno, magari finito molti anni fa, sono capace di rimetterci sopra le mani».
Lo scrittore del presente o del passato sulle cui copertine, con i tuoi quadri, vorresti essere?
«Mi interessano i saggi più dei romanzi, pur trovando aspetti saggistici anche in Dostoevskij. Se devo fare un nome solo, Sigmund Freud».
Cosa pensi delle grandi ripetitive mostre dei grossi nomi del passato, Van Gogh, Chagall, impressionisti, Warhol? Le trovi mostruose come Tomaso Montanari e come me?
«Queste mostre sono capaci di attrarre il visitatore medio ed è utile che esistano, servono a chi non può andare a vedere Van Gogh ad Amsterdam. Anche se io personalmente preferisco le mostre per specialisti, così come, suonando la tromba, preferisco la musica per musicisti...».
Chet Baker?
«Woody Shaw. Ma serve anche la musica per non musicisti: se organizzassero, per fare un esempio limite, un concerto Da Verdi a Bono, ci potrebbero inserire un brano di un compositore un po' più ostico che altrimenti non verrebbe mai ascoltato».
Tu hai studiato architettura. Trovi sia meglio, per un giovane che oggi voglia sconsideratamente fare l'artista, evitare le accademie di belle arti?
«Io ho un padre pittore, ho sempre guardato a lui che ha fatto l'accademia a Lecce e anche io ho fatto copia dal vero ma, al di là del gesto accademico, è difficile imparare a scuola come essere un artista. Per disegnare come disegnava Boullée devi studiare la teoria delle ombre, però queste cose non interessano più. L'ultimo che ha scritto un manuale della pittura è stato de Chirico».
Come mai l'italiano medio è così refrattario all'arte italiana, specie se non si presenta come evento di massa?
«Noi paghiamo i complessi di inferiorità, il disinteresse politico, tutto. A Pergola, in provincia di Ancona, c'è un piccolo museo che contiene i bronzi dorati di Cartoceto. Sculture romane uniche al mondo che faranno sei visitatori al giorno, mentre a Parigi ne farebbero seimila. A Roma in Santa Maria del Popolo c'è Caravaggio al buio e al freddo. Per illuminare il quadro devi mettere la monetina, poi arriva il sacrestano zoppicante con la camicia un po' dentro e un po' fuori e capisci la grande nobiltà dell'Italia e il suo grande problema».
Tu sei un cultore di iconografia novecentesca. Riesci a individuare una differenza cruciale, in arte, fra Ventesimo e Ventunesimo secolo?
«Il Novecento presupponeva l'attesa, anche in arte.
Oggi c'è tantissima offerta e tutto concorre a distruggere questa attesa, il mistero che circondava i lavori prima del rito dell'inaugurazione delle mostre, dove si accoglievano lavori che l'artista aveva lungamente meditato. Internet e le aste continuano a sminuire le gallerie e le loro mostre. Viene tutto anticipato sui social! Ma io non voglio che il trailer di un film sia lungo quasi come il film che ho deciso di andare a vedere...».
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