Viaggio sulle tracce dei maestri liberali (che l'Italia dimentica)

Giuseppe Bedeschi mette in luce i lati meno noti del pensiero di grandi autori, da Croce a Sartori

Viaggio sulle tracce dei maestri liberali (che l'Italia dimentica)

I Maestri del liberalismo nell'Italia repubblicana, il recente volume di Giuseppe Bedeschi (ed. Rubbettino) non è una galleria di santini ma non è neppure una rassegna completa dei più significativi liberali italiani del 900 giacché all'appello mancano nomi come Mario Pannunzio, Nicola Chiaromonte, Carlo Arturo Jemolo, Alessandro Passerin d'Entreves, Panfilo Gentile, Domenico Settembrini, Francesco Barone, per limitarci a questi. In realtà, Bedeschi ci offre una rassegna degli autori sui quali più si è esercitata la sua riflessione, da Benedetto Croce a Luigi Einaudi, da Guido Calogero a Carlo Antoni, da Norberto Bobbio a Nicola Matteucci, da Giovanni Sartori a Rosario Romeo, da Giuseppe Maranini a Lucio Colletti. Si tratta di profili chiari e limpidi che non scadono mai nella retorica agiografica, giacché di ciascun Maestro vengono ricordati aspetti sui quali ci si sofferma poco. Di Croce, ad esempio, rileva la grande onestà intellettuale che l'avrebbe portato non solo a rettificare il giudizio sul fascismo («una banda di avventurieri») e a inaugurare la storiografia revisionistica (il fascismo non fu «un quadro tutto in nero, tutto vergogna e orrori») ma altresì a superare la diffidenza verso i cattolici e a riconoscere la grandezza di Alcide De Gasperi. E un discorso analogo vale per Gaetano Salvemini e per il giudizio liquidatorio che lo storico pugliese aveva dato dell'età giolittiana. Nella memorabile prefazione al libro di William Salomone, L 'età giolittiana (1949) si leggono considerazioni di metodo che fanno giustizia di tanti approcci ideologici tuttora in corso: «Si si giudica l'opera dei politicanti italiani prefascisti alla stregua di una perfezione ideale - è questo il metodo dei riformatori - non ce n'è uno che non debba essere mandato alle forche. Ma se si adotta il metodo della storia, cioè se si confronta per l'Italia il punto di partenza (1870) col punto di arrivo (1922), e se si tiene presente la povertà delle risorse italiane in paragone con le ricchezze degli altri Paesi, si ha l'obbligo di concludere che nessun paese in Europa fece tanti rapidi progressi in così breve tempo». Concetti richiamati da Salvemini, già intervenendo nella polemica tra Benedetto Croce e Ferruccio Parri, a proposito dell'affermazione di quest'ultimo - un moralista astratto - che l'Italia prefascista non poteva dirsi una democrazia: certo non era stata una democrazia perfetta, «ma era il solo Paese che mancasse di quella perfezione?».

Bedeschi è uno studioso di filosofia politica che non ha mai fatto storia di parole, ritenendo che dietro le parole ci sono le cose e che non si può ricostruire la fabbrica delle ideologie senza rapportarle alle strutture sociali, alle istituzioni, ai processi politici che segnano le vicende di un Paese. Non a caso è l'unico filosofo della sua generazione che si sia cimentato con una vera e propria storia dell'Italia della seconda metà del Novecento: La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile (Rubbettino). È questo interesse di fondo a spiegare quella che potrebbe apparire una stravaganza del libro: il fatto che il capitolo più lungo sia riservato a uno storico - sia pure il più grande del secondo Novecento - Rosario Romeo che non è stato mai tentato di occuparsi, a livello dottrinale, di liberalismo. Sennonché, proprio dalla full immersion di Romeo nella vita storica scaturivano lezioni di liberalismo rare nei teorici puri. Ne La libertà difficile (1978), scriveva che «anche le forze conservatrici, legate alla difesa dello status quo, sono indispensabili ai fini di un ordinato sviluppo sociale, nella misura in cui si oppongono alla avventatezza dei nevrotici e irrequieti fautori del mutamento per il mutamento, incapaci di valutare il patrimonio di conquiste civili di cui si vorrebbe far getto con irresponsabile leggerezza» e che il processo di modernizzazione è qualcosa di troppo complesso per lasciarsi catturare dalle semplicistiche categorie delle vecchie scuole di pensiero. Per Romeo non era possibile separare il discorso delle forme di governo da quello delle concrete comunità storiche che quelle forme dovrebbero rivestire. In fondo, pur differenziandosi da Croce su problemi di non poco conto - e Bedeschi li mette bene in luce mostrando l'influenza di Gioacchino Volpe su di lui, giudicato il maggiore storico italiano del suo secolo, Romeo aveva interiorizzato la lezione più autentica di Croce: non si può fare teoria politica senza riflettere sulla storia politica. In fondo, e forse sta proprio qui la ragione per cui quanto hanno scritto sulla democrazia liberale di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori - peraltro due modelli di rigore scientifico, l'uno per l'analisi e il commento puntuale dei classici del pensiero politico, l'altro per i suoi lavori politologici stricto sensu - non sembra poi così esemplare. Le discutibili sintesi liberalsocialiste di Bobbio o il superamento in senso democratico e shumpeteriano dell'elitismo liberalconservatore di Sartori paiono collocarsi oltre il tempo e lo spazio degli Stati nazionali concreti, con le loro storie travagliate, con le loro eredità ingombranti.

La tirannia dello spazio non consente di soffermarsi sulle meditate pagine dedicate a Luigi Einaudi, a Carlo Antoni, a Giuseppe Maranini, a Nicola Matteucci ma qualcosa va detto del giusto rilievo dato a Guido Calogero. La sua idea che libertà ed eguaglianza fossero come le due gambe dell'uomo indispensabili entrambe per camminare, si traduceva in una metafora felice ma poco convincente -e per i motivi detti da Isaiah Berlin parlando della supremazia della libertà negativa sulla libertà positiva. Ma Calogero vide lucidamente che senza mercato e iniziativa privata non poteva esserci società libera e che senza una pluralità di partiti non poteva esserci democrazia.

Era uno dei pochi a pensarlo in un partito rivoluzionario come il partito d'Azione che guardava a un unico grande Partito del Congresso al quale gli intellettuali azionisti avrebbero portato l'intelligenza e i partiti proletari le masse.

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