«È molto meglio essere una signora: le signore desiderano Mozart e Einstein, desiderano cioè cose che sono dei fini e non dei mezzi». Questa, scrive Winifred Holtby, è «una dichiarazione radicale», e solo una persona può averla fatta: «la figlia di Leslie Stephen», meglio nota a tutti come Virginia Woolf. Holtby e Woolf sono praticamente contemporanee, a Londra: la prima, giornalista, attivista e scrittrice, nasce nel 1898 e muore nel 1935; la seconda nasce nel 1882 e muore nel 1941. Da giornalista, Holtby si interessa alla scrittrice del momento, «la figlia di Leslie Stephen»: la conosce negli ambienti letterari di Londra, si fa raccontare della sua infanzia e delle sue passioni, legge le sue opere e, nel 1932, ne pubblica una biografia, la prima in assoluto, Virginia Woolf, che ora torna in libreria, pubblicata da Elliot (pagg. 192, euro 17).
Fra le pagine si percepisce il fascino esercitato da quella che, già allora, è un'icona: «Virginia Woolf fa una vita riservata. Le sue apparizioni pubbliche sono rare, ma riscuotono notevole successo; e tale distacco non fa che incrementare il suo prestigio. Alta, aggraziata, estremamente snella, comunica una sensazione di vitalità trattenuta ma indistruttibile». Però la biografia di Holtby non si limita al ritratto della scrittrice/editrice: analizza il suo stile, rintraccia le influenze letterarie (su tutte, Conrad e Austen), si addentra nelle sue opere. Tratta dei suoi primi romanzi, come La crociera, Notte e giorno e La stanza di Jacob. Quest'ultimo, appena ripubblicato da Feltrinelli in una nuova traduzione di Nadia Fusini (pagg. 246, euro 10) è la storia apparentemente banale di un giovane che, nonostante le scarse disponibilità familiari, riesce a studiare a Cambridge e a fare carriera a Londra. L'inizio è ambientato in Cornovaglia, dove la Woolf aveva trascorso l'infanzia. La vita di Jacob Flanders, così comune, è però dirompente per come la Woolf la racconta: spezzoni brevi, frammenti di esistenza filtrati dallo sguardo degli altri, singoli episodi che diventano metafore di un destino, l'identità che si scompone. «Nessuno vede l'altro così com'è (...). La gente vede l'insieme - vede specie di cose diverse - la gente vede se stessa...».
Winifred Holtby considera poi gli inizi della carriera della scrittrice, con le sue recensioni per The Times Literary Supplement. Nota che, nonostante i romanzi già pubblicati, all'epoca «è ancora come critico che molti preferiscono riferirsi a Virginia Woolf»; la quale, anche se non si è mai premurata di formulare un «metodo critico» («Sceglie quello che vuole», nota Holtby), in effetti «resta un critico raffinato; tra i più grandi, forse». È facile comprendere la prospettiva di Holtby: basta aprire Il lettore comune, la raccolta di saggi che consacra Virginia Woolf come critico letterario. Pubblicata in due volumi, il primo nel 1925 e il secondo nel 1932, comprende sia articoli usciti su The Times Literary Supplement, The Nation, The New Statesman, sia materiali inediti; arriva ora nelle librerie italiane in un unico volume e in una nuova traduzione di Elena Bollati, edita da Elliot (pagg. 512, euro 22; dal 28 aprile).
Thomas Hardy, Defoe e Robinson Crusoe, Chaucer, John Donne, Mary Wollstonecraft, Jane Austen, Joseph Conrad, «gli stravaganti elisabettiani»... Molto finisce sotto lo sguardo della lettrice Virginia, sedicente non-critica che, fin dal titolo, si rifà a Samuel Johnson, citato nel capitolo introduttivo: «Gioisco nel concordare con il lettore comune; perché è grazie al buon senso dei lettori, non corrotti da pregiudizi letterari, che dopo tutte le raffinate sottigliezze e il dogmatismo dell'istruzione si decide il diritto all'onore poetico». Spiega la Woolf: «Il lettore comune, come sottintende Johnson, si differenzia dal critico e dallo studioso. Ha una cultura minore e la natura non è stata generosa nel dispensargli talenti. Legge per piacere personale, non per impartire delle lezioni o per correggere le opinioni altrui. È guidato soprattutto dall'istinto di creare per se stesso un quadro d'insieme con tutti i frammenti nei quali si imbatte: il ritratto di un uomo, lo schizzo di un'epoca, una teoria sull'arte della scrittura». È proprio di queste ultime tre cose, e dell'ironia dell'autrice, che si può godere in abbondanza nel Lettore comune. Quanto ai criteri di scelta, Holtby pare averci azzeccato, visto che nell'ultimo capitolo («Come si legge un libro?») la Woolf dichiara: «L'unico consiglio che una persona può dare a un'altra riguardo la lettura è quello di non accettare consigli, seguire i propri istinti, utilizzare i propri ragionamenti, arrivare alle proprie conclusioni». Indipendenza assoluta, lungo la via anti-accademica («legge per piacere personale, non per impartire lezioni...») e, quindi, possibilità di muoversi dai classici greci ai diari di Evelyn, dalla brughiera di Emily Brontë ai salotti vittoriani di George Eliot, dai mari solcati dai pirati dei tempi di Elisabetta I alla curiosità sconfinata di Margaret Cavendish, duchessa di Newcastle.
E, anche, possibilità di dire la propria, mentre si parla di altre (opere) o di altri (autori). Per esempio, nel capitolo dedicato a «Il saggio moderno» scrive: «Il principio che lo controlla è semplicemente quello di essere piacevole (...). Il saggio ci deve avvolgere facendo scendere il sipario sul resto del mondo». E Il lettore comune ci avvolge, trasportandoci nel mondo, letterario e non solo, di Virginia Woolf. La quale, a proposito dei critici (quelli d'accademia, non i «lettori comuni») che si lamentavano di Conrad, scriveva che sono «come le osservazioni dei sordi quando vengono eseguite Le nozze di Figaro.
Vedono l'orchestra, in sottofondo sentono un misero stridore che interrompe le loro osservazioni, e naturalmente concludono che sarebbe molto più utile che quei cinquanta violinisti invece di strimpellare Mozart andassero a spaccare pietre lungo la strada. La bellezza insegna...». E che cosa insegna la bellezza, alle signore che desiderano Einstein e Mozart? Che nulla conta, tranne l'anima. E la letteratura, che cerca di raccontarcela.
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