Yeats, la vera poesia è passione e talento Ma soprattutto «Magia»

Tornano gli scritti «ermetici» dell'ultimo dei romantici: occultismo, sogni, miti e folklore. Testi misteriosi e misterici, e una prosa unica

Davide Brullo

Come si sa, William Butler Yeats (1865-1939), il poeta che gettò gli occhi nella spirale del tempo, gironzolando, liricamente, tra Grecia arcaica e mito irlandese, Giappone medioevale e lande postumane, druidi e jedi, era in fissa per Maud Gonne. Vedeva in lei, paladina del nazionalismo, una specie di Atena, una ferina donna virile. Visto che la diva, però, non gliela dava (donandosi selvaggiamente ad altri), per la regola della femminilità transitiva e intransigente, il poeta ci provò con la figlia, Iselut che sta per Isolde, o Isotta. Aveva trent'anni meno di Yeats, la tipa, e nelle fotografie pare una Lolita d'Irlanda: conquistò il cuore di Tagore e di Pound, tra i tanti aitanti.

La ragazzina, ovviamente, lo rifiutò e fu per distrarre il dolore che l'insigne poeta, pochi giorni dopo, chiese in sposa Georgie Hyde-Lees. Quanto è piccolo il mondo: la madre di Georgie frequentava Olivia, la mamma di Dorothy Shakespear, futura moglie di Pound. Ezra e Dorothy si sposarono nel 1914; Yeats impalmò Georgie nel 1917: lui aveva 52 anni, lei 25. L'amore funzionò, dando al poeta la grazia di due figli, Anne (che compirebbe 100 anni quest'anno) e Michael. L'intesa sessuale fu favorita dall'eccitazione mistica: «Il pomeriggio del 24 ottobre 1917, quattro giorni dopo che mi ero sposato, rimasi stupito nel vedere mia moglie che tentava la scrittura automatica». Da qui, da uno scandaglio quotidiano nel vigore esoterico della moglie, s'inaugura Una visione (in Italia tradotto da Adelphi, 1973), libro lunare e lunatico, trattato di poetica che sfoga in miniera occulta, pubblicato in origine, per sé, nel 1925, dove - strana mistura di Oswald Spengler strafatto di Blake, di Vico divorato da Shelley, di Kabbalah irish - si organizza in «fasi» il destino dell'uomo e della civiltà. Il libro esercizio spericolato in cui un poeta aggioga la propria immaginazione in diagrammi è lettura straordinaria (alcune «figurine»: Walt Whitman è emblema della fase della «Volontà artificiale»; Spinoza del «Divoratore»; Baudelaire dell'«Uomo Sensuale»; Keats, Giorgione e «molte belle donne» dell'«Ossesso»; Gabriele d'Annunzio, Wilde e Byron dell'«Uomo Affermativo»), specie di vocabolario alchemico, necessario a chi ama Yeats (Sailing to Byzantium, tra le poesie ipnotiche di Yeats, va letta dopo aver inghiottito questa considerazione: «Credo che nell'antica Bisanzio forse mai né prima né dopo nella storia conosciuta la vita religiosa, quella estetica e quella pratica fossero una cosa sola»). Yeats, che a Rapallo, insieme con Ezra Pound «che come artista è il contrario di me, che come critico loda ciò che io più condanno, un uomo col quale litigherei più che con chiunque altro se non ci volessimo bene» parla di John Keats e di Ovidio, ragiona di Bach e dello Zodiaco, mescola la pittura lignea di Cosmè Tura alla scoperta del teatro No nipponico, che trapianta in Irlanda, pensava che nulla è come appare e che sollevando una pietra si possa scorgere l'urlo che nell'ottobre del 1571 inaugurò la battaglia di Lepanto, il melo sotto cui era seduto Isaac Newton nel 1666, l'ombra del soldato che nell'estate del 1227 predisse la morte di Gengis Khan.

Yeats, da sempre, teneva un quaderno dove appuntava i propri sogni, aveva un viso astratto, come fosse riassunto in un vaso di vetro, nel testo che dà il titolo alla raccolta di testi misteriosi e misterici, Magia (Adelphi, pagg. 430, euro 26; a cura di Ottavio Fatica), del 1901, ci avvisa che «i confini della nostra mente si spostano e molte menti possono confluire l'una nell'altra, per così dire, e creare o rivelare un'unica mente», e che «dieci o forse dodici» anni prima, poco fuori Londra, aveva accompagnato un amico da un «evocatore di spiriti» per farsi rivelare «una delle mie vite precedenti» (scoprite voi come va a finire, Yeats ha una prosa ondivaga ed effervescente, che Jorge Luis Borges, tempo dopo, depurerà da par suo).

Agito dall'influsso imperiale di William Blake («Ci sono stati uomini che amavano il futuro come un'amante e il futuro mescolava il suo respiro con il loro e scuoteva i capelli intorno ad essi e li celava alla comprensione della loro epoca. Uno di questi uomini era William Blake»), Yeats sa che i morti ritornano attraverso i vivi («Possono avviare il moto degli avvenimenti, avviato in vita») e che il poeta si aggira tra l'impensato e l'illimite, ha il compito di setacciare l'ignoto: «Ho sempre cercato di avvicinare la mia mente a quella dei poeti indiani o giapponesi, delle vecchie del Connacht, dei medium di Soho, dei conversi che immagino sognare in qualche monastero medioevale i sogni del loro villaggio».

Tacciare Yeats di vaga ingenuità e di vacua superstizione è scientismo inutile: questa è la grande enciclopedia di un poeta che, per forza lirica, non ha pari nella poesia inglese del Novecento. Basta rileggere The Second Coming, scritta esattamente un secolo fa, nel 1919, per capire che quel mondo in cui «le cose si dissociano; il centro non può reggere/ e la pura anarchia si rovescia sul mondo/...

annega il rito dell'innocenza;/ i migliori hanno perso ogni fede e i peggiori/ sono gonfi di ardente intensità», è il nostro, oggi. «Il poeta ha preso dimora nella bocca del serpente», scrive Yeats, in gergo illuminato. Il poeta assume i veleni, complica gli antidoti, tramortisce di squarci l'invisibile.

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