Americani in fuga, il basket torna "italiano"

In 14 tornati a casa: se il campionato dovesse ripartire sarebbe un problema

Americani in fuga, il basket torna "italiano"

C'era una volta il cosiddetto Ugly American, l'americano tamarro. Una figura definita e delineata dagli stessi statunitensi, imbarazzati al pensiero dei tanti loro connazionali che, una volta messo piede all'estero, si comportavano come goffi gradassi, facendo domande assurde e chiedendosi, ad esempio, dove si potesse imparare una fantomatica lingua europea. Ora, la prospettiva si è ribaltata: ugly American, cioé un po' maleducato e scortese, comincia ad essere chi l'Europa la lascia, anzi nello specifico lascia l'Italia, per paura del contagio. O per la frustrazione dell'isolamento a casa.

Negli ultimi giorni la fuga è stata quella di alcuni giocatori di basket. Se ne sono andati in 14, per paura di non trovare posto sull'aereo o per evitare intoppi, e in alcuni casi passando prima il confine per poi partire da altre nazioni, come la Slovenia: da Roma se ne sono andati in cinque (sì, nel campionato chiamato italiano ci possono essere cinque americani in squadra), da altri club hanno messo le ali in numero variabile, tutti per l'incertezza, la paura, la noia, se è vero che anche chi ha scelto di restare ha manifestato la propria contrarietà al divieto di circolare. Come se già non bastassero le difficoltà delle squadre, alle prese con il disagio del presente e l'incertezza del futuro: ora, a livello contrattuale, i club si potrebbero rivalere sui fuggiaschi ma la situazione di allarme generale e pandemia potrebbe presentare agli americani un appiglio legale, a prescindere dal fatto che ora come ora sia più sicuro restare chiusi in casa in Italia che tornare in America. Se non altro, la motivazione per la partenza è chiara: in passato ci sono stati casi di fughe improvvise per i motivi più disparati, oltre che di mancati ritorni per con medesime, nebulose giustificazioni. La fuga più famosa, per la statura tecnica del protagonista, fu quella di Earl Cureton, il centro che nel 1983, appena vinto il titolo Nba con Philadelphia, era arrivato prima a Pesaro ma era stato lasciato libero prima del campionato e firmato dall'Olimpia Milano. Il 18 novembre però scappò, eludendo anche il tentativo di trattenerlo da parte del coach Dan Peterson, che era venuto a sapere della fuga quasi in tempo reale. Peterson che poi, dopo aver perso la finale sei mesi dopo, disse «con Cureton non avremmo mai perso una partita».

E se qui c'è chi si è comportato in modo discutibile, molti giocatori Nba (ieri il terzo positivo: Christian Wood dei Detroit Pistons, che pochi giorni fa ha affrontato gli Utah Jazz, squadra dei primi due contagiati Gobert e Mitchell) hanno invece mostrato il loro lato migliore: seguendo l'esempio di Kevin Love dei Cleveland Cavs, e dei Dallas Mavs, stelle come Giannis Antetokounmpo, Zion Williamson e

Blake Griffin hanno deciso di donare fortissime somme di denaro per aiutare i lavoratori stagionali (uscieri, venditori) che prestano servizio alle partite e che spesso dipendono da quei guadagni per mantenere la famiglia.

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