Dentro il turbinoso avanzare della modernità sopravvivono fenomeni vagamente paranormali: in piena dittatura dell'elettronica sofisticata c'è gente che perde le domeniche a cercare i vinile nei mercatini, così come in giro per il mondo esistono ancora ciclisti che vanno a cercarsi rogne - traumi, fatica, ematomi - nella gara più folle, anacronistica, inverosimile del loro calendario.
Se vogliamo inquadrarla romanticamente, la Parigi-Roubaix è esattamente questo: il vinile dello sport moderno. Non un solo metro di salita, il che lascerebbe immaginare le più rosee comodità. Ma è proprio in questa subdola altimetria che si nasconde il fatale inganno: sui 254 chilometri totali, 52,6 (divisi in 27 settori) sono di puro massacro. Ad attendere il gruppo il mitologico pavé a disegno largo, direbbero forse i piastrellisti: cubi in pietra nera, usciti direttamente dalle storiche miniere del comprensorio a ridosso con il Belgio, della misura di una ventina di centimetri per lato. La vera noia sta nella loro disposizione: con il passare dei decenni e delle intemperie, i sassi hanno preso singolarmente a muoversi, dividersi, allontanarsi, sconnettersi, creando così un fondo stradale da vera mulattiera, perfettamente antitetica all'idea stessa della bicicletta da corsa, sempre più leggera, sempre più rigida, sempre più acrobatica. L'inferno è confezionato: polsi, collo, spalle, fondoschiena subiscono per ore la tortura più sadica che uno sportivo possa immaginare. Difatti, chi esce dalla Roubaix ha bisogno di una vera e propria convalescenza: osteopata per rimettere tutto in sede, massaggi, bagni caldi, e soprattutto tanto riposo, perché microtraumi e indolenzimenti generali vengano lentamente riassorbiti. Sempre che poi non serva direttamente il traumatologo, perché cadere su quelle pietre è l'eventualità più facile, con tutte le conseguenze e le prognosi del caso.
Ha ancora senso, nell'epoca in cui gli atleti vengono gestiti con il bilancino, come attrici fragili e cagionevoli, tenere in piedi una cosa del genere? Dio non voglia che qualcuno risponda no a questa stupida domanda. La Roubaix va tutelata - come i francesi tutelano il pavé alla stregua di un museo - proprio perché unica, grandiosa, completamente pazza. Nel piattume generale dello sport programmato e iperspecializzato, conservare una riserva indiana di stramba poesia e di estrema avventura rappresenta una scelta di fantasia. Non si buttano via i pezzi d'autore. La tecnica e la modernità possono apportare tutte le precauzioni del caso, dal gel sotto il nastro del manubrio al fluido antiforature nelle gomme, dal telaio più elastico alle selle più morbide, ma nessuno scienziato riuscirà mai ad attutire gli effetti macellai di quelle strade campagnole, cioè il loro fascino. Che poi non tutti i ciclisti se la sentano di affrontare il tormento è normalissimo: i pesi piuma del gruppo, su quel percorso, saltano come grilli e rimbalzano velocemente fuoristrada. E' chiaro, si parla di una prova speciale per granatieri e per fachiri. Tant'è vero che spesso vince addirittura un signor nessuno, titolare soltanto di un fisico maciste e di un coraggio incosciente.
Stando così le cose, si comprende ancora meglio perché quest'oggi il favorito indiscutibile sia Fabian Cancellara, già vincitore nel 2006 e nel 2010, nonché vincitore domenica scorsa nel Giro delle Fiandre (altro tritacarne). Lo svizzero tutto d'un pezzo ha fisico, testa, cuore - sarà che ha origini lucane - per questa domenica bestiale. Sembra che il creatore gliel'abbia disegnata addosso come un vestito d'alta sartoria. Certo negli ultimi sette giorni è caduto due volte, non il modo migliore per prepararsi, ma con il temperamento che si ritrova saprà come ignorare i lividi. Soltanto lui può perdere, il che in definitiva diventa l'avversario peggiore: in giornate così, qualche foratura in più, una caduta stupida, un ingorgo imprevisto possono mettersi di traverso e appiedare anche il più forte dei fortissimi.
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