"Diego, la mia Argentina e la frase-trofeo di Pertini"

Intervista a Claudio Gentile. L'eroe Mundial '82: "Il presidente ci disse: Non vi rendete conto di cosa avete fatto per l'Italia"

"Diego, la mia Argentina e la frase-trofeo di Pertini"

Oggi, Italia-Argentina. Come quarant'anni fa. Era un martedì, l'aria calda di Barcellona avrebbe suggerito una gita sulla spiaggia di Sitges ma alle cinque e un quarto c'è la partita, c'è Maradona, c'è uno che lo deve marcare.

Come andò, Gentile?

«Andò che due sere prima di quella partita Bearzot e mi disse: ti ho visto bene, sei di nuovo in condizione, te la senti di marcare Maradona?».

Ma non era Kempes il tuo uomo?

«Sì, come nel '78, quando lui fu il capocannoniere del mondiale. Si fece male Bellugi, entrò Cuccureddu e venni spostato su Kempes, non gli feci toccare palla, fu l'unica volta che non segnò».

Non era Lele Oriali destinato a quel ruolo?

«In teoria sì. Anche contro il Brasile mi toccò Zico ma l'avversario peggiore fu il tedesco Littbarski, nella finale, nel primo tempo decisi di non lasciare mai il suo controllo, poi andai al cross e Paolo segnò il primo gol».

Torniamo a Maradona.

«Pensai che Bearzot stesse scherzando. Gli risposi, quasi ridendo: vabbè mister, ci penso io. Presi le videocassette delle prime tre partite e me lo studiai».

Roba da perdere il sonno prima di andare in campo

«Niente affatto, dormii come sempre, in camera singola, perché mi liberai di Tardelli che fino alle due o tre di notte teneva la luce accesa e leggeva, leggeva, leggeva».

Claudio Gentile

Lo studio su Diego che cosa consigliò?

«Di stargli davanti, di stargli addosso perché se gli avessi concesso un solo metro non l'avrei più preso».

Andò così. Maradona fu il primo a essere ammonito da Rainea, uno scherzo anche quello.

«Diego mi provocò dal fischio di inizio, insultò mia madre, per rendermi nervoso ma ero abituato a ben altro».

Insulti a parte come finì?

«Al fischio finale scappò via, non volle scambiare la maglietta, fui l'unico a non avere un ricordo di quella partita».

Altre magliette ricordo di quel mondiale?

«Di tutti gli avversari. La mia e quella dell'esordio con la Juventus sono custodite da mia madre Elvira ma in prestito».

Sua madre, suo padre Natale, la Libia, gli italiani sfollati, la vostra famiglia fra questi, il calcio e il titolo mondiale, sembrano un film o un romanzo.

«Mio padre ci portò a Brunate, trovai un lavoro da garzone da un fruttivendolo. Portavo, in bicicletta, le ordinazioni ai clienti, i signori di Milano che avevano le ville sulla collina di Como. Andavo a scuola e quando portavo a casa voti bassi mio padre si toglieva la cintola e provvedeva mentre scappavo per non prenderle».

Così ha imparato a marcare. Famiglia numerosa e di sacrifici.

«Maria Rosa, primogenita, quindi io, poi Massimo, nati a Tripoli, invece Armando, Simona e Romina, a Como».

Lavoro duro, su e giù per le salite.

«Quando non avevo la bicicletta salivo i 1.236 gradini da Como a Brunate. Abitavamo in via alla Chiesa, giocavo all'oratorio, don Casimiro voleva che poi servissi messa. Non ne andavo pazzo».

La bicicletta è un hobby.

«Cento chilometri al giorno, insieme con Mauro che ha una azienda di freni in Svizzera, Natale, che lavora in una ditta di trasporti e Domenico impiegato in una stamperia tintoria. Partiamo da Como, Ponte Tresa, passiamo in Svizzera, Mendrisio, torniamo sul lago. Peso forma 84 chili, otto in più di quando giocavo. Già ai tempi della Juventus tifavo per Gimondi. Durante il ritiro a Villar Perosa fingevo di essere infortunato per seguire in televisione il mondiale su strada. Poi Trapattoni mi sgamò e la pacchia finì».

29 giugno 1982, stadio Sarrià, Gentile ha i baffi.

«Una scommessa con un gruppetto di giornalisti, quando eravamo nel ritiro di Alassio. Mi dissero che saremmo tornati a casa dopo il primo turno, allora, risposi, mi faccio crescere i baffi e se passiamo vi mando tutti a...».

Cosa che accadde, dopo la partita con l'Argentina lasciando il campo un bastardi lanciato verso la tribuna stampa.

«Ce l'avevate tutti con noi, sembrava che la nostra eliminazione avrebbe reso felice il Paese».

Per questo entraste in silenzio stampa?

«Furono due i motivi scatenanti: la storia dei premi e quell'altra vile e inventata che Rossi e Cabrini fossero omosessuali, alla vigilia del Brasile. La loro stampa ci presentò così, azzurri maricones».

Tutto nacque da una battuta ripresa da un cronista.

«Tutto servì a farci reagire e ad unirci ancora di più».

Contro l'Argentina fu comunque battaglia, a parte gli insulti di Maradona...

«Gallego aveva l'unghia del mignolo lunga di quattro cinque centimetri, la conficcava sul collo di Paolo, un'azione codarda, così come Passarella e Tarantini non certo due signori».

Cimeli di quel mondiale?

«Uno dei palloni della finale, con la firma di Pertini. Non lo toccherà mai nessuno».

Pertini, l'aereo, la partita a carte. Gentile dormiva?

«No, ero sveglio e guardavo il nostro presidente della Repubblica. Nello spogliatoio mi disse: Lei è un birichino!, poi, rivolto a tutti, disse una frase che è restata nella memoria come un trofeo: Voi non vi rendete ancora conto di che cosa avete fatto per l'Italia!».

Erano anni difficili

«Erano anni aspri per la politica, per il Paese».

Oggi che cosa è cambiato?

«Vedo molta violenza e questo calcio, il nostro dico, non mi piace, spesso mi costringe a cambiare canale. Il gioco a zona ha tolto molto alla nostra scuola di difensori, i gol di Boninsegna e di Riva, marcati anche nella toilette, restano grandiosi e impossibili in questo football contemporaneo».

Oggi a Wembley la grande sfida, come quarant'anni fa. Ha ricevuto l'invito dalla federazione?

Silenzio, pausa, ancora silenzi. Un lontano sorriso. Claudio Gentile rimonta sulla bicicletta e se ne va in fuga.

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