Dio Bolt e quell'uomo bianco Lo sprint non è più tutto nero

Lemaitre è di bronzo nei 200 vinti dal giamaicano e interrompe un digiuno che durava da sedici anni

Dio Bolt e quell'uomo bianco Lo sprint non è più tutto nero

nostro inviato a Rio de Janeiro

È bianco. È francese. È Europeo. È più di Bolt nella notte di Bolt. Lo è per manifesta inferiorità. E non è un paradosso. È questione di pelle e soprattutto di ciò che sta sotto quella pelle. Muscoli minori, fibre minori, fisici minori. Non è razzismo, non è razza, non è quell'infinità di pensieri, gesti, azioni folli e atroci che hanno accompagnato e accompagnano quest'umanità storta e poco umana. È la verità. Il nero corre, il bianco lo guarda correre. Succede così da una vita nei 100 metri, succede così da sedici anni nei 200.

Succedeva. Perché è bianco Christophe Lemaitre (20''12). È terzo nei 200 di Rio. Manifestatamente inferiore al nero vincitore Usain Bolt (19''78), dichiaratamente inferiore al nero d'argento Andre de Grasse (20''02) e però decisamente superiore a tutte le previsioni. Non accadeva da Sydney 2000, Konstantinos Kenteris, greco raccomandato dall'Olimpo per far bella figura ai Giochi e spinto da un curriculum sospetto fatto di fughe in moto e controlli evitati. Quel giorno vinse i 200. Bianco davanti ai neri. Fu un lampo dopo anni di dominio afroamericano. Più di ieri ma come ieri. Perché Lemaitre non ha vinto e non avrebbe potuto mai. Kenteris doveva confrontarsi con disumani. Christophe con molto di più. Doveva sconfiggere i guai e i tormenti che ne avevano accompagnato la carriera e, più di tutto, confrontarsi con un dio. Ce l'ha fatta. Ha vinto quel che poteva vincere. Terzo posto. Storia tutta diversa da Kenteris perché neppure le raccomandazioni dell'olimpo avrebbero potuto aiutare il francese a insidiare dio Bolt.

Crocefisso a terra. Distrutto dalla fatica. La pancia che sussulta e implora altro fiato da regalare ai polmoni. Christophe ha dato tutto per azzannare quel terzo posto che vale come oro, gradino alto e record del mondo insieme per qualsiasi bianco sia talmente folle dall'intraprendere carriera nei 100 e 200. «E dire che mi davano per finito, ma non è una rivincita, è una resurrezione» sussurrerà con un filo di voce una volta tornato a respirare. Parole piccole se confrontate a quelle grandi di dio Bolt che si paragona ad altri dei. «Non devo più provare niente, che cos'altro dovrei fare per dimostrare che sono il più grande?» dice. «Dopo queste olimpiadi posso paragonarmi a Muhammad Ali, a Pelé». In fondo, banale.

A Mosca l'ultima doppietta bianca ai Giochi, 100 metri al gallese Allan Wells, 200 a Pietro Mennea, 20''19 il tempo. Era lui il nostro Bolt. Suo il primato mondiale, 19''72, e in fondo il 19''78 con cui l'altra notte Bolt ha rivinto centrando la terza doppietta di fila 100-200 alle olimpiadi, in fondo ci racconta e ricorda l'immensità del grande pugliese. A Mosca non c'erano gli americani, ma c'erano i giamaicani, c'era Don Quarrie, non un pincopalla qualsiasi. Col tempo di allora, Mennea qui a Rio avrebbe chiuso sesto a pari merito con Lashawn Merrit.

Nostalgia. Inutile. O forse no. Perché l'impresa di Lemaitre non è solo questione cromatica e di bianco e nero e muscoli e fibre e atletismi che ormai ci siamo abituati a considerare nettamente superiori. È soprattutto questione di Europa, di speranza che un giorno un dio della corsa, ci basterebbe un piccolo dio, possa tornare a sbocciare anche da noi. L'impresa di Christophe fa pensare questo. Fa sognare questo. Che dopo la notte di Rio, qualche ragazzino in giro per campetti possa pensare «ma allora vuol dire che se ci provo anche io, un giorno potrei davvero arrivare fin lassù...». Lemaitre ci è arrivato. Ha solo sbagliato i tempi. Perché in questi anni ha trovato un dio in pista.

Lo stesso che l'altra sera ha ammesso «sto diventando vecchio, sul rettilineo il mio corpo non rispondeva più come avrei voluto, forse sarà il mio ultimo 200...». Lo stesso che poi si è voltato e l'ha guardato e gli ha detto come un padre al figlio: «Bravo, Cristophe. Sono orgoglioso di te».

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