
Big George, rivincità lassù. Di nuovo Foreman e Ali, ancora Rumble in the Jungle, la sfida, il mondiale e lo sport che entra nel mito. Ha vissuto due volte, questo gigante vero del pugilato. Prima e dopo Ali, che lo sconfisse in quel tremendo match da cui fece fatica a riprendersi salvo poi tornare sul ring spinto da The Greatest e diventare a 45 anni il più anziano campione del mondo.
Texano di nascita, dopo un'infanzia travagliata e da teppista in quel di Houston, Foreman ha saputo conoscere e apprezzare la vittoria come la sconfitta, un po' com'è la vita. Ha vinto l'oro olimpico a Città del Messico 1968. È stato due volte re dei massimi. Ha sconfitto due volte Joe Frazier e anche Ken Norton. Ha vinto 76 match (68 per ko), perdendone cinque. Eppure il suo ricordo resta legato a quell'incontro perso nella giungla di Kinshasa, in mezzo al pubblico zairese che intonava il canto Ali bomaye (Ali, uccidilo). Quella sconfitta fece cadere l'aura intimidatoria di Foreman, che disse: «Non riuscivo a credere di aver perso il titolo mondiale. È stato il momento più imbarazzante della mia vita. Sono passato dall'orgoglio alla pietà. È stato devastante». Di quella sfida c'è una foto che Foreman ha conservato: quella in cui Ali lo mette a terra. «Mi sono reso conto di quale grande momento fosse per lo sport e per la boxe. E mi ha umiliato. Non l'ho mai dimenticato, però mi ha reso una persona molto migliore di come sarei stato se avessi buttato io giù lui».
C'è poi un altro episodio che ha oscurato la popolarità di Big George, inviso da una frangia di afroamericani: quello che fece dopo aver vinto l'oro ai Giochi. Rispetto alla protesta con i pugni levati contro il razzismo in America di Tommie Smith e John Carlos, Foreman brandì la bandiera statunitense in una patriottica sfilata sul ring. Un gesto di cui il pugile non si è mai pentito. «Sventolavo la bandiera sia per me stesso che per il Paese. Volevo solo che la gente sapesse da dove venivo. Quando puoi fare ciò che vuoi, sei libero», ha spesso dichiarato. Ma in molti l'hanno considerato un traditore della razza.
Pugile e predicatore, dopo un incontro perso a Porto Rico si ammalò e disse di aver sentito Dio che gli diceva di cambiare vita. Abbandonò la boxe e diventò reverendo. Creò un luogo per aiutare i ragazzi in difficoltà, ma rimasto a corto di soldi, Foreman si rese conto che il modo migliore per tenerlo aperto era tornare sul ring. Così fece, a 42 anni. Sembrava impossibile un ritorno vincente, a quell'età. Dopo la sconfitta con Morrison, pronipote di John Wayne, in pochi avrebbero puntato un dollaro. E invece il 5 novembre 1994 affrontò il nuovo campione, Michael Moorer, e lo batté per ko alla decima ripresa diventando il pugile più anziano di sempre a vincere la corona dei massimi e con il maggior numero di anni di distanza, 21, tra un titolo mondiale e l'altro. Dopo il primo di questi, ovvero quando demolì Frazier in due round, scoprì che J. D. Foreman non era il suo padre biologico, mentre il suo vero padre, che si mise in contatto con lui, era un veterano decorato.
Big George si è sposato quattro volte, ha avuto 10 figli e ne ha adottati due. Ha chiamato i cinque maschi George Edward. «Così se uno di noi sale, saliamo tutti. E se uno scende, scendiamo tutti insieme». Il ritiro definitivo arrivò nel '97 a 48 anni. Critico verso il sistema della boxe, sulle accuse di combine che talvolta affiorarono ironizzava dicendo «Match aggiustato? L'ho aggiustato con il mio destro».
Altra frase celebre: «Il pugilato è come il jazz, più è buono e meno la gente lo apprezza». Tra un gong e l'altro, ha fatto fortuna come imprenditore, con un'azienda che produce griglie per hamburger e che gli ha fruttato oltre 200 milioni di dollari. Big George per sempre.
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