L'Inter entra nella storia del calcio italiano. Non certo per lo scudetto che fa parte del suo censo e del suo percorso da sempre ma perché è il primo titolo conquistato da una azienda cinese con un prodotto made in Italy. Il calcio si presta a questo tipo di clamorosi scoop ma il gruppo Suning diventa davvero il primo proprietario straniero ad arrivare al massimo trofeo della serie A. Internazionale Football Club, si dirà, nell'insegna c'è il preannuncio di un fenomeno non limitato all'Italia, come del resto fu scritto nell'atto costitutivo del club «siamo i fratelli del mondo» con il primo presidente, Giovanni Paramithiotti, veneziano di nascita e di famiglia con origini albanesi. Zhang Jindong e suo figlio Steven hanno permesso di riallacciare l'epopea dei Moratti, Angelo e Massimo, loro simbolo come gli Agnelli, di una passione legata al football e alla squadra della città. Mille erano le perplessità che accompagnarono l'arrivo a Milano del gruppo orientale, soprattutto dopo l'incerta e non del tutto chiara avventura dell'indonesiano Erick Thohir al quale Massimo Moratti aveva deciso di consegnare la proprietà. Va da sé che la fama che la popolazione cinese a Milano si portava appresso, sin dagli inizi dell'altro secolo, non contribuiva ad eccitare i tifosi nerazzurri abituati al caviale dei Moratti e stanchi di vedere titoli e coppe dirottati verso l'altra parte dei Navigli o Torino. «Wan Sang prim cinese el derva bottega», era costui, Wan Sang, detto Romanino, il primo cinese immigrato a Milano e aprì appunto bottega nel 1937 per poi diventare cittadino e qui vivere fino ai 91 anni, mentre attorno a lui, tra le vie Canonica e Sarpi, la Chinatown milanese segnalava arrivi continui. E fu proprio l'Inter, quella di Ivanhoe Fraizzoli la prima squadra italiana a presentarsi a Pechino, era il 12 giugno del 1978, per una amichevole contro la nazionale cinese. Era quella un'Inter tutta italiana, Bersellini schierò Cipollini, Canuti, Cozzi, Oriali, Gasparini, Marini, Scanziani, Roselli, Anastasi, Mazzola, Altobelli. Finì 1 a 1, con i gol di Wan Chang e Scanziani. La squadra giocò altre tre partite, a Pechino, Hangzhou e Canton, Fraizzoli aveva in mente di concludere un contratto con il governo comunista di Den Xiaping per la fornitura delle divise dell'esercito.
Il cerchio si è chiuso quarantatré anni dopo, l'Inter di Suning scopre il calcio italiano e in questo trionfa ricorrendo al nostro migliore allenatore e a un altro grande professionista manager. Altri club hanno tentato e stanno ancora tentando di ricostruire la propria storia con l'aiuto degli investitori stranieri, la realtà finanziaria europea conferma questa tendenza, i grandi club della Premier sono in mano a proprietari stranieri, così il Paris St. Germain, resistono le due grandi di Spagna con una specie di azionariato popolare ma in Italia il fenomeno si sta allargando, il Milan ha questa matrice, come Bologna, Roma, Spezia, Parma, Fiorentina, Como, Venezia, Padova, Pisa e Catania. Di certo l'impresa dell'Inter diventa un faro che illumina un futuro diverso dalle nostre tradizioni. Ma Suning non ha di certo violentato l'immagine dell'Inter, nemmeno i ritocchi dell'intestazione del centro sportivo di Appiano Gentile, neppure il nuovo logo, hanno cambiato la sostanza di una squadra che è sì piena di elementi stranieri ma che proprio con l'arrivo di Antonio Conte ha recuperato quel timbro che Helenio Herrera e José Mourinho le avevano trasmesso, arrivando a conquistare tutti i titoli, nazioni, europei e mondiali.
L'Inter made in Italy ma con il padrone cinese rappresenta una svolta, di mercato imprenditoriale, sempre che il gruppo Suning voglia confermare l'annuncio, il progetto, rendere la squadra, oltre al club, una realtà costante e internazionale, senza equivoci e compromessi.
C'è una frase di Confucio che Zhang e Steven Jingdong dovrebbero leggere ogni giorno: dai un pesce a un uomo e lo nutrirai un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita. E quello che sogna il popolo nerazzurro.
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