L'Italia e la tournée che sfidò l'apartheid

La nazionale del rugby invitata dal Sudafrica e la partita tra bianchi e neri...

L'Italia e la tournée che sfidò l'apartheid

Nei primi anni Settanta il rugby italiano attraversa il punto più basso della sua storia. Un campionato che si trascina stancamente davanti a pochi spettatori e soprattutto una Nazionale che viene presa a schiaffi da chiunque. Altro che lamentarsi delle continue sconfitte nel Sei Nazioni, come si usa fare di questi tempi: quella povera Italietta il Torneo (che allora era appunto il Cinque Nazioni) se lo guarda in televisione in bianco e nero, grazie alle felpate telecronache di Paolo Rosi. In campo invece deve accontentarsi al massimo di farsi prendere a legnate dalla Francia B, visto che dopo il massacro di Tolone del '67 (60-13) i cugini non ci ritenevano più degni di affrontare la loro nazionale maggiore. È un'Italia che fatica addirittura a battere la Jugoslavia (13-12), una squadra talmente evoluta da mettere la barriera sui calci piazzati... Ma per quella Italia alla periferia del rugby arriva un'occasione imperdibile: l'invito ad effettuare una tournée in Sudafrica, che in quegli anni ha la nazionale più forte del mondo, ma è alle prese con il boicottaggio dovuto all'apartheid. Le ultime uscite degli Springboks, in Australia e nel Regno Unito, avevano scatenato violente proteste popolari e da qualche anno nessuna nazionale accettava più di andare a giocare a Johannesburg e dintorni. Così, la federazione sudafricana, per trovare un avversario scende al livello dell'Italia, inviando a Roma l'invito imbarazzante.

Se da una parte, ovviamente, c'è la preoccupazione di rompere il fronte anti-apartheid, dall'altra c'è un'occasione che nella vita non si sarebbe mai più ripetuta, soprattutto per puri dilettanti come quegli azzurri. Ma ovviamente anche in Sudafrica sono imbarazzati all'idea di confrontarsi con avversari così scarsi, tanto da inviare un tecnico in Italia per cercare di portare ai limiti della decenza il nostro livello di gioco. Così sulla strada di Marco Bollesan e compagni si profila Amos du Plooy, un ex preside che in Sudafrica allena la nazionale dei neri, i Lepards. Nel frattempo si mette insieme una Nazionale raccogliticcia, tra rinunce per presa di posizione, che però affronta la prima vera tournée della nostra storia ovale, informando ufficialmente il Coni della trasferta proibita solo dopo aver già messo piede sul suolo africano.

L'idea che una Nazionale andasse a giocare nel Sudafrica razzista non può piacere in anni in cui l'opinione pubblica si spacca anche sulla scelta di andare a giocare la finale di coppa Davis in Cile. Il manipolo sgangherato di azzurri comunque intraprende la tournée (ripercorsa brillantemente da Massimo Calandri nel libro Non puoi fidarti di gente così) partendo dalla Rhodesia dove prende 40 punti sotto gli occhi dello spietato dittatore suprematista Ian Smith. Poi altre batoste senza nemmeno affrontare la Nazionale, mentre si srotola davanti ai loro occhi, tanto increduli quanto ingenui, la drammatica realtà dell'apartheid.

Fino all'unica vera vittoria della spedizione, ovvero la possibilità di affrontare (e battere) la Nazionale nera dei Leopards, richiesta posta come condizione per accettare l'invito: da quelle parti non si era mai vista una squadra di bianchi giocare con i neri. Ma nel ghetto di Port Elisabeth gli azzurri diventano degli idoli.

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