L'Italia, com'è noto, è una Repubblica fondata sul pallone. E nei campionati Europei che saranno ricordati come quelli della restaurazione post Covid - nonostante tutte le varianti sul tema - è anche l'ultima Repubblica rimasta a battagliare contro tre grandi monarchie del Continente: Spagna, Inghilterra e Danimarca. Comunque vada, gli Azzurri edizione estate 2021 rimarranno nell'immaginario collettivo come i rappresentanti di un ordine calcistico mai così democratico e popolare. Un potere diffuso esercitato «nelle forme e nei limiti» dettati dal ct Roberto Mancini. Sin dai primi passi di questo esaltante cammino, la Nazionale si è distinta dalle altre per la compattezza del gruppo. Nessuna stella, ventisei operai utili alla causa. All'apparenza un limite, trasformato in punto di forza man mano che è cresciuta la fiducia nelle proprie possibilità. Il mondo intero l'ha capito: non siamo più quelli che si affidano all'istinto difensivo, alternato alle ripartenze o al vecchio caro schema della palla tra i piedi del campione, che ringraziando il cielo quasi ogni epoca calcistica ci ha regalato. La nostra storia è costellata di fuoriclasse assoluti (Meazza, Riva, Rivera, Rossi, Baggio, Totti...) innestati su un tronco di onesti lavoratori del pallone. Un albero genealogico di cui andare orgogliosi, sia chiaro. Ma la storia è cambiata. Questa Italia ci sta abituando a uno scenario inedito: la forza dell'insieme che prevale sull'estro del singolo. Se tutti portano la croce e cantano all'unisono mettendo da parte i personalismi, la somma dei giocatori non fa più 11, ma il loro valore cresce in maniera esponenziale. Alchimia incomprensibile? Macché, soltanto il concetto di squadra spiegato in 90 minuti (più recupero).
I cavalieri della Repubblica italiana in missione a Wembley portano all'attenzione dell'Europa un modello di lotta e di governo che, alle nostre latitudini, si è potuto ammirare rare volte. Un «presidente del Consiglio», Mancini, abile motivatore e cultore della meritocrazia oltre i nomi e gli sponsor, circondato da uno staff di collaboratori competenti e discreti. In campo ci va un mix di «senatori» navigati (Chiellini, Bonucci), «ministri» d'assalto (Barella, Verratti, Jorginho), e persino leader-capopopolo venuti dal Sud (Insigne, Donnarumma, Immobile). L'esecutivo azzurro stasera affronterà la monarchia che negli Anni Duemila ha dominato come un impero, colonizzando a colpi di trofei la scena europea e mondiale. Sul piano tecnico la Spagna ha conservato ben poco della dinastia Tiki-taka, di cui Sergio Busquets è l'ultimo discendente. Un po' come noi, le Furie rosse non vantano un unico catalizzatore di giocate e di riflettori, l'uomo copertina. Alternano momenti di black out a esplosioni di luce, e anche solo il ricordo delle recenti batoste subite ci suggerisce di affrontarli con il rispetto che si deve a una stirpe nobile e tutt'altro che decaduta.
Il tabellone, curiosamente, mette di fronte Paesi dell'area Euro a Stati che non contemplano la moneta unica. L'altra semifinale ospita la più antica monarchia d'Europa, cioè quella Danimarca che tenta di replicare il leggendario trionfo del '92. I soldatini danesi un principe capace di impugnare lo scettro del comando l'avevano eccome, Christian Eriksen, ma il destino ha voluto mettere lui e i suoi compagni alla prova. Stanno dimostrando di essere all'altezza del sogno. Sulla strada dell'impresa incontreranno i leoni inglesi di Sir Southgate e Mr Kane, eredi del casato del football che però sul trono degli Europei non è mai salito.
Il paradosso è che ci riescano proprio adesso, a Brexit compiuta... Scongiuri a parte, possiamo starne certi: in Italia un referendum fanta-calcistico Monarchie vs Repubblica, 75 anni dopo, si risolverebbe in un plebiscito senza storia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.