Ossola, una famiglia due sport, da Varese a Torino

Festa per i 70 anni di Aldo, ma anche per quelli della mitica Ignis

Ossola, una famiglia due sport, da Varese a Torino

Varese - Cerchi Varese e sei costretto a rovistare nella memoria. Diventa nostalgia. La squadra di football scivola verso la lega Pro, un tempo dicevasi serie C. Quella di pallacanestro sta in fondo alla classifica. Dove sono finiti i campioni della boxe, dove Duilio Loi, dove Sandro Mazzinghi, dove i giganti della bicicletta, dove Antonio Maspes, Ercole Baldini e dove Miguel Poblet? Dove è finita l'Ignis di Giovanni Borghi? Quella era Varese, quella era l'Italia. E oggi nel baule dei ricordi ho trovato un nome Aldo, e un cognome Ossola. Compie settant'anni e li compie, con lui, tutta questa città, questa terra, questa gente che quel tempo non ha dimenticato e su quel tempo si arrampica per resistere a se stessa, così vivendo, non sopravvivendo. Vorrei che qualcuno si occupasse una volta per tutte di che cosa si nutrisse Gino Ossola, padre di tre figli, tutti fenomeni, campioni, atleti, esempi di sport e, aggiungo, di esistenza quotidiana. Franco indossava il numero undici di maglia, color granata, era l'ultimo nella formazione leggendaria di una squadra immensa, il Torino. Franco Ossola concluse la sua vita, improvvisamente, sulla collina di Torino, nella tragedia di Superga. Quel giorno, il quattro di maggio del Quarantanove, tolse la luce a una famiglia che già, tre mesi prima, aveva perso Gino, per un incidente stradale sulla maledetta Milano-Varese. Con la madre Angela restarono Luigi, detto Cicci, di undici anni e Aldo, di quattro anni. Aldo era nato il tredici di marzo del Quarantacinque, non si giocava a pallone e nemmeno a palla al cesto, la guerra lasciava morti e silenzi dovunque, Varese pagò il suo conto. Nell'agosto di quell'anno, però, tre eroi romantici, Brusa Pasqué, Marelli e Clerici, decisero di fondare la Pallacanestro Varese. Non immaginavano che quella sarebbe stata la prima pagina di un libro meraviglioso. Non lo immaginava nemmeno Aldo Ossola che, per merito di antibiotici in soccorso di una influenza bestiale, crebbe di centimetri in centimetri, così agevolando l'amore non più per il calcio, come i suoi fratelli, ma per il basketball. Al punto che si divertiva, in casa, a lanciare il pallone non verso una immaginaria porta di football ma nella rotonda scatola che aveva contenuto il panettone, un dolce cesto come sarebbe stata la sua vita da campione.

Gino Ossola era commerciante di gioielli, come testimonia il negozio che sta sotto i portici di corso Moro, nel centro di Varese. I tre gioielli di famiglia non hanno valore di mercato, fanno parte dell'hall of fame che è una bell'insegna dietro e dentro la quale ci sta di tutto. Se non ci fosse stato Giovanni Borghi forse non ci sarebbe stata l'Ignis e tutto quello che per lo sport l'impresa del Cumenda rappresentò, dal calcio in serie A alla pallacanestro campione d'Italia, d'Europa, del mondo, al ciclismo, alla boxe, al canottaggio, all'atletica. Il fuoco, la luce, questa era l'Ignis tradotta dal latino in varesino, accesero una città e una nazione intera. Aldo Ossola in quella luce e fuoco ha saputo vivere da regista, offrendo idee sotto forme di pallone, mettendosi al servizio di tutti, rispolverando la tradizione degli Zorzi, Vianello, Bisson, Rusconi, passando da Meneghin a Morse, cognomi che non hanno bisogno di sottotitoli, loro hanno scritto la storia, loro la narrano. Qualcuno, credo Franco Grigoletti per Il Giorno , lo battezzò Von Karajan, sapeva dirigere il quintetto come l'austriaco l'orchestra. Aldo von Ossola ha vinto sette campionati italiani, quattro coppe Italia, cinque coppe dei Campioni, una coppa delle Coppe, due Intercontinentali.

Erano anni belli, si passavano notti in balera dette poi night club, al Montallegro e alla Poretti, tra salamelle e birra di lusso. Aldo ha sposato, con la pallacanestro, la dolcissima Luisa detta Lella e ha due figli, Paola e "Meme", all'anagrafe Emanuele, non come Vittorio re d'Italia ma come Raga, Manuel Raga, l'ala messicana, sodale di mille imprese, vittorie e titoli.

Aldo ed Emanuele tifano per il Toro ma soprattutto amano il Grande Torino.

Le fotografie della leggenda stanno su una delle pareti nell'ufficio del negozio, omaggio e rispetto discreti ad una fetta di vita smarrita ma mai perduta. Franco portava capelli lucidissimi di brillantina. Aldo ora sta scrutando una scatola vuota di panettone.

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