Il male invisibile ci ha rubato tante vite, troppe cose, ma non i ricordi. In giornate che avremmo dedicato alle Olimpiadi affidate a Tokio, come nel 1964, ci fermiamo davanti a quello che era l'hotel Metropol di Mosca, dove hanno dormito Lenin e John Kennedy, per attraversare il male oscuro dello sport, ma anche giorni difficili da dimenticare per lo sport italiano.
L'Olimpiade che aveva perso l'innocenza al Messico, che si era schiantata sulla strage degli atleti israeliani e Monaco 1972, denudata dal boicottaggio africano a Montreal 1976, si trovava davanti al baratro perché l'invasione sovietica dell'Afghanistan aveva convinto ben 61 paesi, Stati Uniti in testa, a rinunciare alla più grande delle feste sportive, quella che nella storia aveva convinto tutti che dovessero essere giorni di pace.
In questo clima l'Italia senza atleti militari, sotto la bandiera del CONI e non quella Nazionale, come tanti altri, portò i suoi gioielli dell'atletica: Pietro Mennea e Sara Simeoni. Il primo fratello Pietro, a vent'anni, era già medaglia di bronzo nei 200 sulla pista di Monaco, gara dove è stato finalista in ben quattro Olimpiadi. Sorella Sara, invece, dopo l'argento nel salto in alto a Montreal 1976, si metteva al collo 5 medaglie d'oro prima di sfidare la sua grande rivale Rosemarie Ackermann sulla pedana dello stadio Lenin. Mennea ci aveva dato una delle due medaglie atletiche in Baviera, bronzo, dietro Borzov e Black, come Paola Pigni nei 1500 nella gara del mondiale della Bragina. La ventitreenne Simeoni, 4 anni dopo, con l'argento conquistato dietro la cara nemica Rosemarie, dava all'Italia l'unica medaglia atletica in quei Giochi canadesi di Montreal.
Una coppia meravigliosa portata alla gloria nel convento di Formia dove avevano trovato maestri diversi da quelli che li avevano portati alla ribalta: Mennea lasciò il suo scopritore Mascolo per lavorare al magistero di Carlo Vittori; la Simeoni abbandonò il professor Bragagnolo per scalare il mondo, fino al primato assoluto con 2 metri e 1 centimetro, seguendo il cuore e la grande esperienza di Erminio Azzaro, diventato poi suo marito, un saltatore in alto di grande qualità nello squadrone del prof. di Ascoli che resta il più affascinante fra gli allenatori della nostra scuola.
Olimpiade tormentata quella di Mosca, ma per l'Italia dell'atletica quelle tre giornate di luglio diventarono storiche. Il 24 Maurizio Damilano, marciatore piemontese di Scarnafigi si prese l'oro sui 20 chilometri trovando il premio al traguardo dopo le squalifiche, quando ormai vedevano lo stadio, di Bautista e del sovietico Solomin. Un segno del destino che deve aver ispirato 2 giorni dopo Sara Simeoni prima con il record olimpico saltando 1.97, battendo la polacca Kielan (1.94) e la tedesca dell'Est Kirst che tolse il bronzo proprio alla Ackermann sposata Witschas. Il 28 luglio arrivò il giorno dei giorni per Pietro Mennea che l'anno prima, al Messico aveva battuto con 1972 il mondiale dei 200 nelle Universiadi spodestando Tommie Smith il gigante delle olimpiadi messicane, l'uomo che con Carlos aveva provocato la prima grande rivolta contro il razzismo alzando il guanto nero sul podio trovando solidarietà forse soltanto dall'australiano Norman, l'argento di quella gara storica, che nel suo ultimo viaggio trovò i due grandi americani al suo fianco. Gara sofferta, arrivata dopo la delusione sui 100 metri ed una chiacchierata purificatrice nella palazzina del villaggio con Valeri Borzov, il modello che aveva ispirato il suo viaggio nel mondo delle fibre veloci. Corsia esterna, l'ottava, con alle spalle il gallese Wells, la bestia nera, che aveva già vinto i 100 dove Pietro era andato davvero male. Sembrava tutto perduto all'uscita della curva, ma è stato in quel momento che il cielo sopra Mosca è diventato davvero più azzurro: trionfo a braccia alzate battendo in 2019 proprio Wells e il giamaicano Don Quarrie: 2 centesimi sul gallese, 1 metro davanti al vincitore di Montreal 4 anni prima dove Pietro giunse quarto. Quattro giorni dopo con la 4x400 insieme a Malinverni, Tozzi e Zuliani si prese pure il bronzo nei Giochi che diedero l'oro al pugile Oliva, al judoka Gamba, al tiratore Giovannetti, al lottatore Pollio e al cavaliere Roman, l'Olimpiade della prima medaglia per il basket italiano, l'argento con Sandro Gamba in panchina e Romeo Sacchetti, allenatore della nazionale oggi, sul campo.
Simeoni è ancora nel cuore della nostra atletica, anche se non come vorrebbe, ma quando la chiamano è sempre pronta a regalare sorrisi, a ricordare come si diventa campioni anche in un paese dove per lei è stato difficile persino insegnare. Mennea ha fatto viaggi diversi, tanto lavoro in pista, tanto sui libri, quattro lauree. Una vita da film dove ha navigato anche andando contro qualche scoglio perché se gli altri riposavano lui si allenava pure sotto la pioggia, nei giorni di festa, perché era spigoloso abbastanza difficile da amare sempre, perché la sua vita è stata combattimento per diventare campione, quando all'inizio dicevano, brerianamente, che era stortignaccolo e non poteva arrivare dove invece lo abbiamo applaudito tutti.
Campioni per talento, personaggi diversi, con Sara passeresti giorni interi anche adesso, con Pietro che purtroppo ci
ha lasciato nel 2013, dovevi aspettare che aprisse la porta, ma questo, per lui, un po' diffidente verso l'esterno, non è mai stato facile soprattutto quando dopo il ritiro tornò in pista per arrivare alla finale di Seul.
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