La storia scritta sul prato. Berrettini, primo italiano finalista a Wimbledon.

L'umiltà di Matteo che domani troverà Djokovic: "Tutto troppo grande per me, però devo crederci"

La storia scritta sul prato. Berrettini, primo italiano finalista a Wimbledon.

Una domenica in paradiso. Matteo Berrettini è il primo italiano in una finale di Wimbledon. Il torneo più bello. Il tempio del tennis. Già, il paradiso. «È una cosa troppo grande. Mi ci vorrà un po' per capire». Matteo guarda il suo angolo, la vera meraviglia di questa storia cominciata sui campi della periferia romana, tirando colpi magari un po' a caso ma con in testa un grande futuro. «Ehi ragazzo, con quel servizio puoi andare lontano» gli disse un giorno uno che passava di lì. Era Adriano Panatta, che proprio ieri ha festeggiato il compleanno vedendo un altro italiano arrivare all'ultima partita di uno Slam. È il terzo, lui a Parigi aveva raccolto l'eredità da Pietrangeli. Sono passati 45 anni, e che anni.

Si diceva del suo angolo: mamma Claudia, papà Luca e il fratello Jacopo. Con il padre ha sempre condiviso la passione del basket e dell'Nba, mentre la mamma lo ha definito «curioso e testardo». Sempre concentrato, al limite della perfezione: «Quando ha cominciato davvero, a 8 anni lo chiamavano Mister No. Non accettava un ordine del maestro, voleva la spiegazione. E poi si concentrava sull'obbiettivo». Come ieri appunto.

Semifinale di Wimbledon, praticamente la partita che può ucciderti o portarti tra i Grandi. Dall'altra parte la situazione era più o meno la stessa anche per Hubert Hurkacz , gigante polacco capitato lì dopo aver battuto Federer. Solo i campioni però giocano in paradiso e non c'è stata partita, nonostante sia finita in 4 set. «Quando ho perso il terzo che pensavo di meritare di vincere, mi sono detto: reagisci». L'ha fatto, eccome.

Il suo angolo, si diceva: lì da una vita c'è Vincenzo Santopadre, il papà tennistico. Parlandogli quando Matteo non era ancora Berrettini, il suo coach raccontava di come fosse educato e ascoltasse i consigli, ma di come anche volesse sapere tutto nei minimi particolari prima di essere convinto. Mister No non era cambiato, ma era già diventato più adulto. E poi c'è Alja, nata a Zagabria ma australiana d'adozione. Quello Berrettini-Tomljanovic è un doppio nato guarda caso a Wimbledon due anni fa. Lei è come lui: gentile, riservata, mai fuori posto. Anche ieri, nel box dei giocatori, sempre perfetta fino all'ultimo punto, con un'esultanza felice e composta. Una combinazione ad incastro, probabilmente quella che ha completato il puzzle.

Poi - vabbè - ci sono i numeri, quelli della partita. Ma in fondo raccontarla non serve. Sì, è vero, Matteo ha raggiunto i 100 ace nel torneo con i 21 di ieri più o meno a 230 all'ora. Però quello che è stato decisivo non è soltanto il servizio devastante, ma certi tocchi di mano che da metà del primo set all'inizio del quarto hanno annichilito Hurkacz: parziale di 11 game a zero, roba da mal di testa. Il polacco ha provato in tutti i modi: è andato in bagno, si è messo il cappellino, ci ha messo una vita a cambiarsi le scarpe, ha esultato su un punto vinto grazie al net. L'altro, per risposta, gli ha piazzato lì una pallata nel punto dopo, guardandolo fisso sul muso. The end.

Ci sono giornate che

sembrano impossibili e Matteo Berrettini domani avrà davanti il Cannibale Djokovic a caccia del Grande Slam: «Io e il calcio a Londra: compratevi un bel televisore. Non è finita qui». Sarà un paradiso: saremo tutti lì con lui.

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