«Stando in Italia non sarei mai diventato Mario Andretti. Gli Stati Uniti mi hanno dato la possibilità di realizzare la mia vita, di esaudire i miei sogni, di andare addirittura oltre, ma io mi sento italiano anche se non ho più quel passaporto. Il sangue non si può cambiare». Domani Mario Andretti compie 80 anni. E apre l'album dei ricordi. La sua è una storia da film hollywoodiano, quella del bambino fuggito dall'Istria e dagli orrori delle foibe per diventare prima profugo, poi emigrato e, alla fine del sogno, campione del mondo di F1, oltre che di Formula Indy. Vincitore alla 500 Miglia di Indianapolis a Daytona a Sebring a Monza alla Pikes Peak. Il libro dei record conta 111 vittorie e 109 pole in 897 gare. Un campione a 360 gradi. Un personaggio unico che riesce ancora ad arrabbiarsi su twitter se qualcuno considera Ascari e non lui l'ultimo italiano campione del mondo.
«Sono contento di essere arrivato a 80 anni, ma per me è solo un numero. Non cambia niente». La voce di Mario Andretti arriva chiara e vivace dall'altra parte dell'oceano dove, oltre alle corse, ha business nel petrolio e nel vino. Torniamo alla fine degli anni Quaranta, quelli della grande fuga dall'Istria diventata comunista sotto Tito. «Io non avevo provato una grande paura perché il nostro paese non era stato bombardato durante la guerra, ma quello che successe dopo fu straziante. I nostri genitori non ridevano più e noi bambini capivamo che qualcosa stava cambiando. I partigiani locali fucilarono un nostro cugino vicino a casa. Un altro cugino scappò in Indocina. Anche noi ce ne andammo, non si poteva restare a Montona. E fu terribile perché un po' ci sentimmo traditi dal nostro paese».
La fuga della sua famiglia dall'Istria è del 1948. Che ricordi ha di quel periodo vissuto da profughi?
«Dopo qualche tempo in una caserma a Udine ci mandarono in un campo profughi a Lucca. La gente ci trattava come zingari, ma mamma e papà cercavano di non farci mancare nulla. Ci vestivano bene, ci mandavano a scuola. Feci tre anni all'Istituto Industriale Carlo Del Prete che c'è ancora oggi. Imparai un po' d'inglese, soprattutto la grammatica e fu utile quando poi a papà arrivò il visto per andare in America».
Ricorda ancora quel viaggio?
«Noi bambini eravamo allegri sul Conte Biancamano, papà diceva andiamo là 5 anni poi torniamo. Non siamo più tornati anche se io continuo a sentirmi italiano. Erano le 5 del mattino del 16 giugno 1955, era una bella mattina limpida, lo ricordo bene perché era il 21° compleanno di mia sorella. Passammo sotto la Statua della Libertà e pensai se un paese costruisce delle statue così grandi qui tutto potrà accadere».
E a Nazareth in Pennsylvania avete trovato l'America.
«Papà che lavorava in una fabbrica di acciaio dopo qualche anno tornò in Italia. Io gli dissi che preferivo restare. Dopo due settimane era già ritornato anche lui dicendo semplicemente la nostra casa ora è qui in America».
Negli anni però è tornato a Montona e poi anche a Lucca.
«A Montona mi hanno nominato sindaco in esilio, a Lucca cittadino onorario. È stato strano quando tornai per la prima volta in Istria vedere altra gente in quella che era la nostra casa, pensare che mai ci avevano compensato per quello che ci portarono via Ma è stato giusto fare pace col passato e oggi là ho ancora degli amici».
Intanto era già stato contagiato dalla passione per le corse. Una passione cominciata in Italia
«A Monza. Andammo nel 1954 con mio fratello Aldo, dopo che avevamo visto la Mille Miglia sull'Abetone. Il nostro idolo era Alberto Ascari e il nostro sogno era di diventare piloti. A Nazareth dove andammo a vivere c'era una pista. Ricordo che ce ne accorgemmo una delle prime sere, vedevamo le luci in lontananza, sentivamo i motori Fu una passione bruciante. Non mi ha più lasciato. Per me è sempre stato un sogno essere in una macchina da corsa. Una voglia che non è ancora passata».
Che cosa ha avuto in più di suo fratello gemello Aldo. Avete cominciato insieme, ma è lei ad aver vinto tutto.
«Solo più fortuna. Aldo ha avuto un brutto incidente già alla prima stagione, in coma per tre settimane. Io invece ho saltato solo due gare per infortunio».
Sulle 111 vittorie, può sceglierne una o è impossibile?
«La vittoria a Monza nel 1977 la tengo nel cuore perché proprio lì avevo visto la mia prima gara importante a 14 anni e lì era cominciato il sogno. E poi lì ho vinto anche il Mondiale in un giorno triste, quello dell'incidente al mio compagno Peterson. E ripensando a quanti amici ho perso in pista, non posso che dire di essere stato fortunatissimo, non solo fortunato».
Monza significa anche una pole straordinaria con la Ferrari. Chapman, Haas, Ferrari ha lavorato con dei geni del motorismo.
«Erano dei maghi, ma Ferrari non lo puoi paragonare a nessun'altro. Con la Ferrari non ho vinto il mondiale, ma ho vinto la mia prima gara e poi corso la mia ultima in F1. Quello a cui tengo tanto è il fatto che con il Commendatore ho avuto sempre un rapporto diretto. Decidevamo tutto io e lui a quattr'occhi. Ogni ingaggio lo abbiamo fatto io e lui direttamente».
Sarebbe stato bello avere una biposto a quei tempi per portare Ferrari Invece ha portato Trump, come lo giudica come presidente?
«Ci sarebbe qualcosa da dire su certi comportamenti, ma si intende di economia
e ha lavorato per il benessere dell'America e non solo dell'America, ma di tutto il mondo, anche con la Cina alla fine ha ottenuto dei risultati. Per me la sua è stata una presidenza positiva».Buon compleanno super Mario.
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