Un fascicolo fatto di un foglio solo, una indagine senza indagini: è quanto basta ieri alla Procura di Milano per chiedere e ottenere il rinvio a giudizio di Maila Andreotti, la ciclista azzurra che ha denunciato il clima irrespirabile della Nazionale, le vessazioni, il bullismo, gli insulti. Il commissario tecnico dell'Italia, Dino Salvoldi, l'ha querelata per diffamazione aggravata. Il pubblico ministero non ha sentito l'esigenza di capire se Maila si fosse inventata tutto o se qualcun'altra delle ragazze del pedale potesse confermare o smentire il suo racconto. Ha chiesto il rinvio a giudizio, e in una manciata di minuti il giudice preliminare ha deciso. L'8 giugno sarà processata.
Pochi minuti prima dell'una, quando esce dall'aula di udienza accanto al suo avvocato Camilla Beltramini, Maila Andreotti ha i lucciconi. In mano ha la richiesta di rinvio a giudizio, firmata da un pm donna: «Offendeva la reputazione di Salvoldi Edoardo affermando che durante le trasferte lo stesso invitava le atlete a lasciare la porta della camera aperta per entrare in qualsiasi momento, che fossero vestite o no (...) affermava altresì che Salvoldi avrebbe intrattenuto relazioni con alcune atlete, favorendole poi nelle scelte tecniche». Poteva essere l'occasione per aprire una finestra sul lato oscuro di un grande sport: come già accaduto in altre discipline femminili, dal basket alla ginnastica al calcio. Le dichiarazioni di Maila, d'altronde, arrivavano sull'onda dell'inchiesta del Giornale, che per primo aveva rotto il muro del silenzio. Invece sul banco degli accusati finisce l'accusatrice.
Eppure il tema sollevato da Maila sarebbe stato vasto e affascinante: perché non abbracciava solo il tema dei rapporti imposti o comunque impropri, ma l'intera piaga delle vessazioni nell'ambito sportivo, a qualunque livello. «Questa - racconta l'atleta - è stata raccontata in giro come una sorta di #MeToo del ciclismo. Ma io non sono mai stata molestata sessualmente. Ho visto accadere delle cose, e le ho dette, non ho taciuto. Ma ho parlato soprattutto dell'aria irrespirabile che ho dovuto subire, il bullismo, il cameratismo spinto all'eccesso, il tecnico che ti dà della cicciona, della culona. Sa cosa significa dare della cicciona ogni giorno a una ragazza di sedici anni, nell'età più vulnerabile ai disturbi alimentari? E poi cicciona a una velocista... Non possiamo avere il fisico di Olivia!».
Non è detta l'ultima parola: perché a giugno Maila chiederà di portare nell'aula del processo le prove e le testimonianze che dimostrino che non si è inventata nulla. «E punteremo - spiega l'avvocato Beltramini - a dimostrare che il reato di diffamazione semplicemente non sussiste». Ma intanto c'è la scena già vista di una donna che ha il coraggio di parlare e che si vede non creduta. «Io nel mondo del ciclismo ho vissuto per anni, è stata la mia vita, ho fatto sacrifici incredibili.
Oggi mi chiedo che sport sia un ambiente dove la prima regola è farti sentire una merda. Io non me ne sono andata perché qualcuno mi abbia molestato o perché sia stata costretta. Me ne sono andata perché ho una dignità».
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