Spot con lo slogan di Auschwitz Lo scivolone del presidente Dl

Campagna per i centri d’impiego: «Il lavoro rende liberi». L’ex senatore Coletti si giustifica: non ricordo dove ho letto quella frase, mi ha folgorato

Barbara Benini

da Milano

Ci sono scivoloni che strappano il sorriso. Altri che indignano. E altri ancora che stanno in mezzo, che lasciano in bocca un sapore sgradevole e che ci parlano di superficialità, scarsa sensibilità o, semplicemente, di un difficile rapporto con la Storia e il buon gusto.
E così, può capitare di imbattersi, in un pomeriggio di fine estate, in un presidente di Provincia che si fa venire la bella idea di inserire in dépliant promozionali dei Centri per l’impiego della Provincia di Chieti la citazione: «Il lavoro rende liberi». Una frase che evoca i peggiori fantasmi della nostra storia recente, il nazismo e lo sterminio degli ebrei, e quell’«Arbeit macht frei» che campeggia con agghiacciante ironia in cima ai cancelli di Auschwitz. Ma la gaffe non termina qui. Perché Tommaso Coletti, questo il nome dello smemorato presidente della Provincia di Chieti, nello stesso testo ci tiene a spiegare perché ha scelto proprio quelle parole: «Non ricordo dove lessi questa frase, ma fu una di quelle citazioni che ti fulminano all’istante perché raccontano un’immensa verità». E lo scivolone si trasforma in capitombolo.
Un vuoto di memoria quanto meno increscioso per Coletti, già senatore della Margherita nella precedente legislatura. Quella frase, secondo gli storici, serviva per illudere i deportati, lasciando loro la speranza che, lavorando, sarebbero usciti liberi (e vivi) dai campi di concentramento.
Ma Coletti cerca di giustificare la sua scelta: «Le parole hanno un significato in senso assoluto e non in relazione a chi le adopera, sennò tutto sarebbe opinabile». Davanti all’imbarazzo e alle rimostranze del suo stesso schieramento politico, con il parlamentare ulivista Lele Fiano che gli chiede di scusarsi con «i parenti degli internati nel lager di Auschwitz», il presidente della Provincia si dice dispiaciuto «di non aver tenuto conto che quelle parole sono state poste con ironia da un dittatore in un campo di concentramento». Ma rifiuta di ritirare il dépliant, come richiesto anche dal Verde Marco Lion. «Per quale motivo dovrei farlo? Quella frase è una delle quattro utilizzate nella nostra campagna per promuovere i centri per l'impiego (...). Chi ritiene che mi sia riferito allo slogan nazista si sbaglia. Non sono mai andato ad Auschwitz o a visitare altri lager. Quella frase l’ho letta tempo fa su un manifesto elettorale e nessuno si scandalizzò. Mi piacque, la condivido e l’ho riproposta».
Certo, lo spirito con il quale Coletti lancia questo messaggio ai suoi cittadini non è quello che ispirò Hitter e il maggiore Rudolph Höss, primo comandante del campo, che quell’insegna in ferro battuto fece apporre all’ingresso di Auschwitz.

Ma ciò non toglie che quelle parole, nella sensibilità e nella memoria comune, siano ormai inscindibilmente legate al contesto originale nel quale furono elaborate. E quel contesto ci parla di milioni di persone che dal cancello di Auschwitz sono entrate, passando sotto quella scritta, e ne sono uscite, per usare un’altra citazione che quell’orrore denuncia, «per il camino».

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