La stampa conservatrice Usa volta le spalle ai repubblicani

Il «New York Post» appoggerà Hillary Clinton. E un’altra tegola arriva dai cento morti americani in Irak a ottobre

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Cronache di una campagna elettorale diversa da tutte le altre e a tutte le altre uguale. Il ticchettio della statistica annuncia che sono diventati cento i soldati americani caduti in Irak nel mese di ottobre. Non sarebbe cambiato niente, evidentemente, se la lancetta si fosse fermata a 99. Ma le cifre fanno simbolo, possono portare o costare voti; ed ecco che l’amministrazione Bush si sforza, ed è umano, di ridurre il lutto a routine. Ed ecco che il New York Times, giornale avverso all’amministrazione Bush, balza sull’occasione e pubblica paginate di fotografie dei caduti. Il New York Post, quotidiano concorrente, più popolare, più conservatore e sostenitore del partito di Bush, effettua un «salto della quaglia» locale e annuncia ufficialmente il suo «endorsement» al candidato democratico per il seggio senatoriale di New York: Hillary Clinton. Non è una sorpresa, Hillary avrebbe stravinto comunque e il proprietario del Post, Murdoch, cura gli affari oltre che la politica. In Gran Bretagna fu tra i primi a sostenere Tony Blair contro i conservatori.
Cambiano i tempi e i venti. Chi non ci tiene a parlare più di tanto dell’Irak (l’argomento non è scomodo soltanto per il presidente che ha voluto e si trova a presiedere questo conflitto sempre più sanguinoso, confuso e frustrante: anche i «pezzi grossi» dell’opposizione democratica schivano ogni occasione in cui potrebbero essere costretti a proporre una politica alternativa) cede sempre più spesso alla tentazione, non nobile ma antica, del pettegolezzo, della «distruzione» politica dell’avversario press’a poco con ogni mezzo. Mentre nel New Jersey le sorti dei candidati paiono pendere dal verdetto della Corte Suprema sulle nozze fra gay, qualcuno è andato a frugare nei fondi di magazzino di qualche libreria e ha scovato le pagine ingiallite di un romanzo che Lynn Cheney scrisse 25 anni fa. Si chiamava Le sorelle ed era la sua confessione di lesbica.
I «soliti ignoti» hanno innescato una sorta di asta attraverso Amazon, che ha portato le quotazioni del volume a oltre mille dollari la copia. Indignazione del padre dell’autrice, il vicepresidente Cheney, che parla di «immondizie». Indignazione, in Virginia, del candidato democratico al Senato, che parla di «immondizia». Si chiama James Webb, è sempre stato un repubblicano conservatore, ministro nel governo Reagan, è passato ai democratici per protesta contro la guerra in Irak. È un soldato decorato, vent’anni fa ha scritto un libro di cronache del fronte: lo ritirano fuori adesso per rinfacciargli il «linguaggio sessista» messo in bocca ai soldati. Il suo avversario, il repubblicano Allen, è appena riemerso da una confusa rissa nata da una sua violazione del catalogo del politically correct: avrebbe chiamato «macaco» un sostenitore di Webb dalla pelle scura.
Era parso un appello «in codice» ai razzisti odiatori dei neri, poi è venuto fuori che si trattava di un indiano. Ma non di un «mohicano», come subito si arguì, bensì dell’India; e che l’espressione non lusinghiera faceva parte del gergo dei Pieds Noirs francesi d’Algeria, fra cui la mamma di Allen, e riguardava gli arabi. Allen è in questo momento in leggero vantaggio su Webb, in New Jersey il candidato democratico era favorito, ma può essere sbalzato di sella dalla contesa sul matrimonio gay. Ciascuno di questi tre seggi senatoriali potrebbe decidere le sorti dell’amministrazione Bush nel nuovo Congresso. Peggio di una finale calcistica ai rigori, anche se gli strateghi democratici, digeriti gli entusiasmi della settimana scorsa, ricominciano a mettere le mani avanti e a dire che «ci vorrebbe uno tsunami» per scalzare la maggioranza repubblicana in Senato.


Diverso è il discorso per la Camera, ma Bush si batte di persona su tutti i fronti, anche se predilige gli Stati in cui è più popolare. Dunque il Sud: dopo il South Carolina, il presidente ha parlato in Georgia a un pubblico «sicuro» e plaudente, sullo sfondo di molte bandiere.

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