Roberto Volpi, statistico, autore di Storia della popolazione italiana dall'Unità a oggi (La Nuova Italia, 1989) e La fine della famiglia (Mondadori, 2007), nel saggio Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo (Solferino, pagg. 272, euro 16,50) lancia un allarme ampio e preoccupante.
Professor Volpi, il titolo del suo libro è inquietante.
«Voleva esserlo. E il sottotitolo è ancora peggio...».
Appunto. Davvero noi italiani siamo a rischio estinzione?
«Non sappiamo se, oggi, una grande popolazione occidentale possa estinguersi. Personalmente penso di no, ma la storia non offre esempi in questo senso e non possediamo la sfera di cristallo...».
Però?
«Però le tendenze demografiche di lungo periodo, che possono cambiare, sia chiaro, non nel senso che queste traiettorie possano invertirsi, ma che possono essere modificate, vanno nella direzione di una forte riduzione quantitativa, e qualitativa, della popolazione».
È sicuro?
«Questa forte riduzione è data per certa, ormai, anche dall'Istat: da qui al 2070 le previsioni ci danno con una popolazione di 12 milioni e qualcosa in meno».
Oggi quanti siamo?
«Meno di 59 milioni. Fra cinquant'anni saremo intorno ai 47 milioni, mentre per la fine del secolo saremo sotto i 40 milioni secondo la Population Division dell'Onu, la cui stima non è la più pessimistica; per esempio, l'Università di Washington ci dà a 30 milioni. Una débâcle».
Trenta milioni eravamo poco dopo l'Unità d'Italia, nel 1883.
«Certo, quelli erano gli abitanti, come numero, ma la popolazione era estremamente diversa... A fine secolo saremo vecchi, molto più di oggi, e già abbiamo l'indice di vecchiaia più alto del mondo, insieme al Giappone, ovvero 190: il che significa che ci sono circa duecento anziani, sopra i 65 anni, ogni cento bambini, sotto i 14 anni».
Il doppio?
«L'indice medio in Europa è molto più basso, 110/120. All'indomani dell'Unità, invece, gli abitanti erano giovani: uno su tre aveva meno di 14 anni. Si moriva tantissimo, siamo chiari: noi siamo diventati tanti, fino ai 61 milioni del 2014, non per le maggiori nascite, bensì per la riduzione della mortalità».
Perché questo declino della popolazione?
«Senz'altro è legato al declino della natalità. E, su questo, si apre un dibattito che non finisce più...».
Apriamolo.
«La denatalità ci accompagna da metà degli anni '70. Alla fine degli anni '60 il numero medio di figli era 2,6 per donna; oggi è 1,2. Il punto è questo: si fanno meno figli, e le donne italiane sono fra quelle che ne fanno meno al mondo».
Ci sono delle ragioni?
«In intere aree dell'Occidente, soprattutto nel Sud e nell'Est dell'Europa, c'è stata una diminuzione della natalità: siamo sotto il cosiddetto tasso di sostituzione, pari a due figli per due genitori. In Europa la media è di 1,5 figli per donna».
Da noi però è più bassa.
«Ci accontentiamo di dire che non ci sono state politiche nataliste forti, come in Francia o nel Nord Europa: assegni per i figli, detrazioni fiscali, servizi per l'infanzia estesi e gratuiti...».
Non è così?
«Certo, e questo ha contribuito a una reazione peggiore. Ma il fatto è che c'è un venir meno del valore del figlio: una volta il figlio era il completamento di una vita, e la prosecuzione della propria esistenza; oggi viviamo indipendentemente dai figli e, spesso, scegliamo di vivere senza. E questo ha cambiato profondamente l'Occidente».
E l'Italia?
«Ci sono alcune specificità. In Italia c'è stata l'acquisizione di una serie di diritti fondamentali concentrata in un brevissimo lasso di tempo, tra la fine degli anni '60 e quella degli anni '70, ed è stata proprio tale brevità che non ci ha dato la possibilità di fare l'abitudine a questi diritti. In un decennio vengono sanciti la liberalizzazione della pillola, il divorzio, il nuovo diritto di famiglia del '75 che parifica, come è ovvio, diritti e doveri dei coniugi, e che è una rivoluzione profonda, anche del modo di rapportarsi con i figli, e infine l'aborto. Tutte grandi conquiste in un arco di tempo così piccolo».
Non è che i diritti obblighino a non fare figli...
«Certo, ma la società ha dovuto adeguarsi in modi così rapidi che i rapporti interni a essa non riescono a riequilibrarsi. Non a caso il crollo della natalità inizia nel '75, l'anno dopo il referendum sul divorzio, che è una battaglia fondamentale sui diritti civili e segna l'ingresso dell'Italia in un clima diverso: viene vissuto come l'attacco a un diritto acquisito, ed è una sconfitta epocale di una certa parte politica e religiosa, che non ha capito che c'era un processo ormai in atto, da supportare culturalmente, e a cui non ci si poteva opporre».
Con quali conseguenze?
«Il matrimonio, che in Italia era al suo apice, soprattutto quello religioso, che rappresentava il 98 per cento delle unioni e aveva sostenuto il miracolo economico, ne esce a pezzi: così a pezzi che, da Paese con il più alto indice di nuzialità in Europa, 8 matrimoni l'anno ogni 1000 abitanti, diventiamo quelli con l'indice più basso, 3 ogni mille, fra i quali quelli religiosi sono inferiori al 40 per cento».
E quindi?
«E quindi questo crollo coinvolge la natalità, perché il matrimonio religioso è quello a più alta propensione ad avere figli, è quasi finalizzato ai figli, anche se non solo».
Questo calo riguarda tutta l'Italia?
«Sì, la denatalità accomuna tutte le Regioni: da 20 anni, il tasso nel Mezzogiorno ha iniziato a calare, anche più che al Centro-Nord. C'è però una differenza cruciale: al Centro-Nord c'è un fenomeno migratorio dal saldo positivo, che equilibra la forbice tra le morti, tantissime, e le nascite, pochissime; nel Mezzogiorno, invece, il saldo migratorio è fermo, e la forbice non si equilibra».
Eccezioni?
«Bolzano. Che infatti è la meno italiana delle province... In una provincia su 4, i morti sono il doppio dei nati. E sono dati precedenti al Covid».
Davvero fra 50 anni l'Italia sarà «deserta e disadorna»?
«Il Mezzogiorno si spopolerà di più, e più alla svelta. Certe realtà terranno meglio, si pensi al triangolo Milano-Monza-Varese, che ha una densità di popolazione come quella del Bangladesh, e ha una doppia capacità attrattiva, sia verso l'estero, sia verso le altre Regioni».
Chi non reggerà?
«I piccoli comuni, con meno di 3mila abitanti, che poi sono la metà dei comuni italiani. Nei prossimi dieci anni, nove su dieci saranno spopolati. Le località di collina e di montagna. Il Sud nel suo complesso. Il dramma è che, anche per quanto riguarda le grandi città, che sarebbero la locomotiva demografica, siamo messi male, tranne poche eccezioni».
Nel libro parla di «fallimento demografico, umano, antropologico. Di civiltà».
«Non dobbiamo pensare che la demografia sia avulsa dal resto: è la summa dei rivolgimenti che avvengono in campo economico, sociale, culturale, e se li porta dietro. Nel libro parlo di una società abituata al poco: poca famiglia, pochi figli, poche relazioni... Del resto, il poco è più semplice del molto».
Che cosa ci dice la demografia?
«È il terminale dei cambiamenti culturali e antropologici, per esempio il rifiuto del figlio. Parlo di una società verticale, in cui spariscono le parentele. E critico il Pnrr, che avrebbe dovuto porre al centro la questione demografica, perché il poco è la risposta della società alla propria insicurezza. Perciò parlo di fallimento».
Anche dell'Occidente?
«Certo, la demografia è in crisi anche negli Usa e, se aggiungiamo l'Europa e il Giappone, abbiamo fatto tombola: tutto l'Occidente è in piena regressione demografica. Il punto è che non sentiamo più la necessità della prosecuzione, sia come Nazioni, sia come specie. Non sentiamo più la necessità che la società, l'Italia e l'Occidente progrediscano... Quindi c'è un fallimento che chiamo di civiltà».
Scrive: «Moriamo senza accorgercene».
«Sì, travolti dall'ordinarietà».
Suona quasi poetico.
«Senza dubbio. Il fatto è che l'Italia ha bisogno di una grande scossa, non solo economica, anche se non so chi gliela possa dare... L'economia è fondamentale, ma senza una svolta, anche ideale, è difficile che riusciremo a riguadagnare terreno».
Quindi, chiudendo il cerchio e tornando al titolo, saremo veramente Gli ultimi italiani?
«Non noi e i nostri figli, ma ne discuteranno i nostri nipoti, di quanto possa essere dura questa crisi demografica. Noi siamo quelli che, negli ultimi 50 anni, hanno dato il via al processo. E ormai la finestra per agire è breve: restano non più di dieci-quindici anni per riprendere e modificare le tendenze in atto.
Quello che mi preoccupa di più, però, è che intorno al tema ci siano l'indifferenza sostanziale di chi ha il potere e il dovere di agire, e una scarsa comprensione della sua decisività assoluta: è il primo problema del Paese, e di questo non c'è coscienza».
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