Questo nuovo libro di Stenio Solinas (Da Parigi a Gerusalemme. Sulle tracce di Chateaubriand, Vallecchi, pagg. 163, euro 15,50) offre a ogni pagina qualche momento intenso di piacere intellettuale. È un libro arioso, marino, che sa di vento e di vele. È il documento di una passione, è una confessione, è un ritratto letterario, è un discorso sul passato e sul presente, è un racconto di viaggio. Ed è la manifestazione sintomatica di quella «sindrome mimetica» senza la quale nessuno può scrivere un libro così.
Solinas racconta che compì 18 anni lo stesso giorno in cui trovò dal libraio Tombolini a Roma una copia antica di un libro di Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem. E quel libro e quell’autore gli confermarono che esiste uno spirito, un genio della giovinezza che nessuna ricorrenza anagrafica può cancellare. Cominciò a specchiarsi nel visconte bretone che fu insieme uomo di mare, scrittore, viaggiatore, ministro, ambasciatore. E oggi paga il suo debito di ammirazione e di identificazione con queste pagine. Nella prima parte, il libro è un bellissimo saggio sulla figura di Chateaubriand dal punto di vista non di un critico letterario, con tutte le sue distanze e astuzie, ma di uno scrittore che descrive uno scrittore attualizzandolo e calandosi appassionatamente in lui. E nella seconda parte racconta un itinerario per mare che segue le orme di quello compiuto dall’autore di Memorie d’oltretomba due secoli fa.
Chateaubriand, l’aristocratico che era sfuggito alla Rivoluzione e al Terrore viaggiando in Inghilterra e in America, tornato in patria e deluso da Napoleone, parte ora per l’Oriente. Va per raccogliere materiali per il romanzo storico ed epico che sarà I martiri, ma intanto dai suoi appunti esce un’opera che rinnova il genere stesso del libro di viaggio. Era stato un genere sottomesso alla scoperta scientifica e geografica per tutto il Settecento, ora invece comincia a raccontare sensazioni, emozioni, e quando esplora, esplora innanzi tutto l’ego dello scrittore. Solinas, sia pure con aristocratica discrezione, si racconta nel corso di tutto il libro. Si proclama antimoderno come Chateaubriand, e sa che ciò vuol dire anteporre l’etica e l’estetica alla politica, amare la vitalità e non aver paura della disperazione, non desiderare comandare e non accettare di essere comandato (anche il conte Alfieri, che oggi purtroppo nessuno legge più, sentiva così). Sa che cosa vuol dire stare dalla parte degli sconfitti, il massimo della nobiltà dello spirito.
Il viaggio di Solinas avviene per mare, su uno sloop di 13 metri a un albero, con uno skipper di nome Gianpa, un tipo hemingwayano, dalle molteplici vite. Va da Trieste alle isole joniche e poi attraverso l’istmo di Corinto ad Atene, alle Cicladi e a Smirne, con l’approdo finale a Istanbul. La descrizione del viaggio è affascinante, niente lungaggini, nessun eccesso di dottrina, tutto viene fuori da dettagli, annotazioni di vita, riflessioni improvvise. Se per i profani Chateaubriand è il nome di una bistecca, Solinas non si tira indietro e offre indicazioni sul burro per condirla, sulla tecnica del taglio, sul posto migliore al mondo in cui mangiarla (per inciso, la Coffee Room del Travellers Club, a Londra). Una verità profonda è che l’ouzo non ha senso berlo lontano dalla Grecia. E una gioia per tutti noi che abbiamo avuto problemi ad adattarci alla società di massa è la risposta alla ragazza che da un motoscafo chiede una coca-cola: «Ma per chi ci ha preso?».
Il tono cambia nelle pagine dedicate a Gerusalemme. Chateaubriand volle essere Cavaliere del Santo Sepolcro. Solinas parla del Muro, dei campi profughi, della condizione dei palestinesi, con ammirevole equilibrio.
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