Stile, intransigenza, humour. La lezione di un critico etico

È morto il direttore di "Studi cattolici" e delle edizioni Ares. Lettore severo e autore di grande eleganza

Stile, intransigenza, humour. La lezione di un critico etico

Le persone che contano davvero si rivelano al primo impatto, quello che si stamperà per sempre nella memoria e che sarà l'ultimo ad andarsene.

Ricordo perfettamente il caldo pomeriggio di luglio, anno 1983, in cui feci la conoscenza di Cesare Cavalleri. Ero stato assunto come praticante da una settimana ad Avvenire e mi avevano messo a titolare gli articoli della pagine degli spettacoli. Conobbi Cesare, prima che di persona, attraverso un suo articolo: su Loretta Goggi. A quarant'anni di distanza ricordo ancora l'attacco: «Quasi irriconoscibile nel suo look vecchile...». L'aggettivo mi incantò. Il giorno seguente Cesare comparve di persona in redazione per lamentarsi del titolo, che era mio. Fu tagliente, quasi cattivo, ma nella sua ramanzina riconobbi una specie di benevolenza: gli ero simpatico.

Mi colpiva la corrispondenza perfetta tra lo stile della sua scrittura e la sua presenza fisica, il suo modo di vestire, i baffi, lo sguardo sottile. In lui non c'era mai nulla di casuale: questo lo compresi subito e lo constatai sempre, fino al nostro ultimo incontro, qualche mese fa. L'orrore per la chiacchiera, per i discorsi equivoci o generici, per il «si fa», il «si dice» era tale in lui da indurlo a definire molto bene l'immagine che intendeva trasmettere di sé. Questo è lo stile.

Un'immagine che si tradusse in un'attività editoriale (la fondazione e la direzione della casa editrice Ares) e pubblicistica (la direzione di Studi Cattolici e la collaborazione con altre testate, prima fra tutte Avvenire) davvero sterminate. Eppure, qualunque suo scritto leggiate, avrete sempre l'impressione di parole meditate e sedimentate a lungo. Perché la profondità non è questione di ore, anni o minuti, è un'attitudine etica: le cose vanno dette con le loro parole, e le parole sono quelle, e mai altre. Pochi sono stati maestri in questo come Cesare. Per questo trattengo ancora quell'incipit su Loretta Goggi.

Ogni casa editrice importante ha un suo totem. Il totem di Ares si chiama Eugenio Corti, uno degli scrittori italiani più letti dell'ultimo mezzo secolo, che Cavalleri sottrasse alla bolla sistemica della cultura italiana. Corti con il suo Il cavallo rosso non è uno di quegli autori che «si» leggono: Corti deve essere scelto, Corti è una decisione, Corti non è sistemico: è un grande scrittore, e va tenuto fuori dalla chiacchiera letteraria. La preferenza di Cesare per Eugenio Corti rappresentava una sorta di endorsement: indicando Corti ai lettori, Cesare raccontava il proprio modo di fare e raccontare la letteratura.

So che si dovrebbe, a questo punto, parlare della sua appartenenza all'Opus Dei, alla sua scelta di dedicare interamente la propria vita a Dio attraverso il lavoro e l'impegno culturale. Sono cose importanti ma facilmente equivocabili e preferirei lasciarle a chi le sa raccontare meglio di me.

Ho fatto esperienza, piuttosto, della sua intransigenza, che riservava tanto a una poesia quanto a un fatto di Chiesa quanto a sé stesso. Ma questa parola, «intransigenza», non deve a sua volta trarre in inganno: in lui non c'era nulla di inquisitorio, la sua intransigenza era essenzialmente di carattere estetico, nel senso alto di questa parola. Cesare sapeva che lo stesso Cristianesimo è prima di tutto un fatto estetico, il contraccolpo di una bellezza alla quale un uomo serio dovrebbe consegnare tutto sé stesso.

Perciò il rigore conviveva anche, beato lui, con un humour straordinario, che sarebbe un grave errore passare sotto silenzio. Le sue «stroncature» contengono alcune delle pagine più esilaranti della letteratura italiana degli ultimi decenni. Una scrittura sciatta lo feriva, lo offendeva, meritando la sua crudeltà tutta di stile e mai di cuore. Un esempio su tutti: le memorabili stroncature dei libri di Umberto Eco.

Con me fu sempre buono anche quando scrivevo cose che non gli piacevano. Segno di una preferenza per me incomprensibile, ma di cui sono grato a Dio. Del resto il suo metodo critico, pur rigorosissimo, non incoraggiava mai la sistematicità, bensì la preferenza, il rischio, fino all'arbitrio.

Sospetto che oggi ci abbia lasciato non tanto un grande editore o un grande giornalista, ma un grande scrittore. Che, come tutti i grandi, sarà scoperto poco a poco, perché l'ingegno pesa e portarlo a galla è più difficile.

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