Le braccia levate non si sono mai abbassate. Anche oggi, che i 90 anni segnano uno straordinario passaggio di vita, Abdon Pamich vince nel ricordo e nel cuore della gente: è un simbolo non solo un cognome. Simbolo di un oro olimpico catturato a Tokyo nella 50 km di marcia e di tanti altri successi: bronzo a Roma 1960, due titoli europei, 40 titoli italiani. Ma simbolo di un'altra marcia ben più dolorosa. Abdon significa servo del Signore: destinato a soffrire e vincere. Il 3 ottobre 1933 ha cominciato la marcia di vita, nato a Fiume che oggi è Croazia, ricordi legati a Istria, Dalmazia, terre di confine che la guerra trasformerà in territori di caccia per i partigiani di Tito. Il papà va via per primo. E a 13 anni, il 27 settembre 1947, insieme a Giovanni, fratello più grande col quale amava tirare di boxe, lascia la mamma e due fratelli più piccoli. Fugge nella notte, maglietta, calzoncini e tanto freddo. Eppoi finalmente in treno verso Trieste: un esodo. Gli toccheranno un certificato di profugo e 300 grammi di pane al giorno... «Finimmo nel campo profughi di Novara, una ex caserma, pioveva ed entrava l'acqua. La famiglia si ricongiunse a Genova: papà trovò lavoro, arrivò mamma con i fratelli».
Pamich, la sua è una storia di marcia. Ricordi che si legano?
«Il collegamento c'è, il passato determina il futuro. Quella vita cominciata a 13 anni non è stata da ricordare e gioire. Invece nello sport non ho raccolto per quanto seminato».
Ovvero?
«L'Olimpiade di Melbourne era la più facile da vincere, però mi hanno massacrato di allenamenti. A Roma sono andato in forma dopo i Giochi perché prima non mi hanno fatto gareggiare. Se mi fossi allenato solo con il mio allenatore avrei reso di più. Ed infatti per Tokyo mi sono preparato a modo mio. Ho anche perso un europeo per un mal di pancia improvviso».
La sua è una storia felice nello sport?
«Ho fatto quello che mi è piaciuto. Sono contento. Ho amato la maglia azzurra. Per noi era il massimo: ora tutto è monetizzato, calcolato, perde valore. Allora tenevamo al distintivo azzurro. Era d'oro se vincevi ai Giochi».
Sono i tempi moderni?
«Sarà così. Ma se ottieni un grande risultato, il giorno dopo c'è già lo sponsor. Vedo atleti sfruttati. Noi ci divertivamo, ora mi sembra si divertano poco. Sono sempre tesi».
La marcia è cambiata dai tempi suoi?
«È altra specialità. In Germania la chiamano corsa a gamba tesa».
Le sarebbe piaciuto provarla?
«Sono contento di quello fatto, in una epoca dove lo sport era divertimento. Andavo in giro per il mondo, anche a prendere le paghe. Mi piaceva misurarmi. Sono andato in Urss dove si facevano battaglie furiose, cercavo queste situazioni dove lottare. Perché, poi, vincere era più bello».
Come è arrivato alla marcia?
«È la marcia che mi ha scelto. La faceva mio fratello. Mi hanno detto: anche tu. Volevo fare la boxe, mio zio Cesare era un organizzatore, però mi disse: fino a 13 anni non vai in palestra. Poi a 13 anni è successo quel che è successo. Mi chiamarono per un provino da portiere a Genova: non ho avuto la faccia tosta di andare».
La marcia l'ha portata all'oro di Tokyo. Lo porta nel cuore?
«È rimasto lì. Vivo poco di ricordi, penso più a cosa fare domani. La soddisfazione che rimane è quella di trovare ancora gente che mi dice: mi ha fatto piangere mi ha emozionato mio padre mi svegliò nella notte per vedere il suo arrivo».
C'era passione...
«Eravamo molto seguiti. Chi conosce oggi i marciatori? Nemmeno ricordano chi ha vinto l'ultimo oro. Noi eravamo sempre per strada, 32 domeniche di seguito. In Brianza lottavo spalla a spalla con Dordoni. In strada non c'era neppure lo spazio per passare. Come nelle gare in salita del Tour o del Giro».
Ora ci ricordiamo del caso Schwazer. Che ne pensa?
«La prima volta ha ammesso, la seconda lo hanno incastrato in modo spietato. C'era volontà precisa, forse perchè allenato da Donati che ha scoperchiato cose che non dovevano essere scoperchiate. Se la sono legata al dito. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra».
Cioè?
«C'è modo e modo di drogarsi: c'è pure il doping psicologico. Per esempio, chi prende gli integratori e non può farne a meno. Nessuno si è mai accorto che Schwazer era in crisi? I tecnici non servono solo per allenarti. Il mio allenatore aveva buon senso ed era uno psicologo senza mai aver studiato psicologia».
Torniamo all'oro del 1964...
«A Tokyo non mi sono fatto condizionare, non dovevo niente a nessuno. Ero sereno. Ho vinto l'Olimpiade più difficile, ho dovuto battere il record olimpico di quasi un quarto d'ora».
Si è dovuto fermare per necessità fisiologiche...
«Faceva freddo, ho preso un the dal rifornimento: era gelato, ho bevuto a stomaco vuoto e il mio intestino ha fatto quello che non doveva. Era la prima Olimpiade in cui c'era un servizio per strada, non ci sarei arrivato. Mi sono fermato. Ogni 10 m. di strada c'era un soldato, alcuni si sono messi intorno a me ed io dietro ad un cespuglio. Poi ho riacchiappato il mio avversario che si era ringalluzzito».
È stato nominato commendatore. Portabandiera a Monaco 1972...
«Non mi chiamano commendatore: mi verrebbe da ridere, da vergognarmi. Meglio dottore. Oppure solo Pamich.
Per chiudere: cosa le dicono questi suoi 90 anni?
«Mi accorgo improvvisamente di essere diventato vecchio. Antico nel modo di pensare».
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