Nell'era dell'industria 4.0 e della «app economy», inventarsi un futuro da imprenditori sembra essere diventato un gioco da ragazzi. Facile quasi come aggiungere un'icona sullo smartphone. L'Italia punta a diventare una Silicon Valley nel cuore del Mediterraneo, la nuova culla per migliaia di genietti, potenziali Zuckerberg di casa nostra.
La febbre da start up si può misurare in tempo reale sul sito del ministero dello Sviluppo economico: ad oggi sono iscritte in 6.400, più altre 275 piccole e medie imprese. Per meritare l'etichetta di «innovative», tra i vari requisiti, deve trattarsi di società di capitali costituite anche in forma di cooperativa, che si dedichino alla produzione, sviluppo e commercializzazione di beni o servizi ad alto valore tecnologico, con un limite di fatturato di 5 milioni di euro l'anno.
Da quando il decreto «Crescita 2.0» del dicembre 2012 le ha inquadrate concedendo loro vantaggi fiscali, amministrativi e sui contratti di lavoro, le start up innovative lungo la Penisola sono cresciute al ritmo di 140-150 nuove realtà al mese: cinque al giorno. E, rispetto al marzo dello scorso anno, ne sono spuntate mille in più. La regione preferita dagli startuppari italici è la Lombardia, con un'impresa su cinque lanciata tra Milano e le altre province, seguita dall'Emilia Romagna (...)
(...) e dal Lazio. E gli investimenti a settembre hanno raggiunto quota 136 milioni di euro (+150%, anche se è ancora poca roba in confronto ai soldi che piovono all'estero: in Francia le start up hanno raccolto 600 milioni in sei mesi).
Dietro la vetrina scintillante che mostra numeri a doppia e tripla cifra, si nasconde però un mondo fatto di luci e ombre, non molto distante dalla realtà vissuta ogni giorno da tutti gli altri imprenditori tradizionali. Si scopre che nel Belpaese, ancora imbrigliato da una crisi di lunga durata, chi vuole aprire una pizzeria come chi s'inventa la killer application che rivoluziona il commercio online, si trova ad affrontare i soliti ostacoli: burocrazia asfissiante, accesso ai capitali come una corsa a ostacoli, tassazione predatoria. Trasformare un'idea potenzialmente vincente in un business che vinca la sfida del mercato. È questa la vera «impresa», figuriamoci quando l'obiettivo è introdurre un'innovazione che possa reggere la concorrenza dei competitor su scala internazionale. Fino al grande sogno di una «exit» milionaria, tramite la quotazione in Borsa, meglio ancora la vendita a una grande azienda o a un fondo di venture capital. Uno su mille ce la fa, insomma. Quello della mortalità è un tema cruciale. Negli Usa tra il 50% e il 70% delle start up non supera il primo anno di attività, lasso di tempo in cui di norma non producono né fatturato né clienti (gli analisti la chiamano la «valle della morte»). In Italia, dato l'orizzonte temporale ristretto, mancano dati certi. Ufficialmente, solo una sessantina su 5mila sarebbe scomparsa dai registri nel 2015. Intanto migliaia di imprese si limitano a sopravvivere, come osserva Luca Tremolada nel libro Fondatori (Hoepli): «Se non arriveranno nuove risorse si rischia di assistere a una proliferazione di start up orfane, gracili, venute al mondo grazie a investimenti di piccolo taglio (10-50mila euro), che vivono in un limbo in attesa di fortuna o di contributi più sostanziosi».
Altre caratteristiche delle imprese innovative ci dicono che forse è un po' prematuro affidargli un ruolo trainante per la ripresa del Paese. Innanzitutto per una questione di proporzioni: le start up rappresentano appena lo 0,38% sul milione e mezzo di società di capitali italiane. La metà risulta in perdita. Dal punto di vista dell'occupazione danno lavoro a circa 31mila persone, indotto escluso, di cui 23mila sono i soci in prima persona. La presenza femminile, inoltre, è inferiore rispetto alle aziende «vecchio stampo». Alcuni studi, come quello a cura della società Instilla, hanno perfino messo in dubbio il concetto stesso di impresa innovativa, che non vorrebbe dire di per sé «digitale». Solo sei start up su dieci all'alba del 2016 dichiaravano di avere un sito internet, e in due casi su tre non erano nemmeno funzionanti.
Danilo Iervolino, presidente dell'Università telematica Pegaso, ha appena dedicato a questa galassia in chiaroscuro il manuale Just press Start (up). Dall'idea all'impresa (Giapeto). E riassume la situazione così: «Negli Usa le start up fioriscono già come colossi in divenire, possono contare su una rete di finanziatori, di mentori, di business angel talmente strutturata da rendere improponibile il raffronto con quello che accade da noi. In Italia, chi intraprende questa strada, spesso la vede come una scorciatoia per entrare nel mondo imprenditoriale. Però si scontra subito con la dura realtà, non trova sponsor, quando le cose vanno bene nel 70-80% dei casi si raggiunge il pareggio di bilancio non prima dei tre anni. Nonostante gli sforzi del governo, che su Invitalia come distributore di sostentamento sta puntando molto - precisa Iervolino -, in Italia si chiede di fare innovazione ma non ci sono gli impianti normativi che la favoriscono».
Il ruolo degli incubatori è fondamentale per aiutare le troppe start up ancora acerbe nel processo di maturazione. Come «acceleratori» di impresa offrono spazi di coworking, consulenze, formazione e si pongono l'obiettivo di accompagnare gli imprenditori nelle braccia di potenziali investitori. In Italia sono una quarantina quelli certificati dal Mise tra pubblici, privati o misti. Digital Magics è tra i primi attivi in Italia, ha scommesso sulle start up del digitale sin dal 2008 e oggi conta circa sessanta imprese in «magazzino». «Fino a qualche anno fa affermarsi sul mercato nazionale era più semplice, adesso per essere premiati i progetti devono avere un impatto almeno europeo», spiega il cofondatore Alberto Fioravanti. «Per questo molti ragazzi decidono di avviare l'impresa direttamente all'estero. Non tutti però possono permetterselo. Il nostro compito comincia dove nascono le idee, poi vanno curate e fatte crescere come in una serra. Certo, su dieci piantine, una può diventare un grande albero...». Di piantine, anzi di semi imprenditoriali, Digital Magics ne analizza circa 1.500 ogni anno per scegliere i più promettenti. «La settimana scorsa abbiamo presentato 19 nuove start up a oltre 200 aziende e investitori internazionali. Dietro questi progetti ci sono le storie di neolaureati plurispecializzati, come di manager ormai quarantenni con una storia molto interessante alle spalle». Alcuni di loro hanno perso il lavoro e decidono di lanciarsi nell'avventura, altrettanti vengono da una o più esperienze precedenti finite male.
«È ora - conclude Fioravanti - che anche in Italia si guardi al fallimento non come a un indizio negativo, ma come a un'occasione per dare un'altra possibilità». Serve coraggio per premere start (up) e ripartire.Giacomo Susca
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