Sul partito degli industriali il «Sole» non splende più

Secondo alcune stime il bilancio 2010 del gruppo Sole 24 Ore potrebbe chiudere in rosso per 30-35 milioni. Forse più, forse meno, a seconda della politica contabile che l’ad Donatella Treu deciderà di applicare agli oneri di ristrutturazione. In ogni caso, dopo i 52 milioni del 2009, per il secondo anno di fila il colore sarà rosso. Mentre non è chiaro dal piano industriale 2011-13 appena presentato, quando tornerà il segno più. Ora: che un gruppo editoriale italiano abbia i bilanci bruttini, nell’alba del terzo millennio non deve stupire. Quello che però fa del Sole un caso particolare è il legame con il suo azionista di maggioranza: la Confindustria. Una società per azioni quotata in Borsa, ma controllata da un’associazione. Un legame a doppio filo che pone interrogativi: può l’associazione degli industriali permettersi di avere l’azienda-Sole in difficoltà? E ancora: può la gloriosa società editoriale nata nel 1965 contare sul suo grande azionista in caso di necessità finanziarie?
Partiamo dai numeri. Da quelli ufficiali dei bilanci pubblici e da quelli riclassificati da R&S-Mediobanca si vede che nei 10 anni dal ’99 al 2008 il 24 Ore ha girato a Confindustria quasi 163 milioni di euro: oltre 105 sono i dividendi (ordinari e straordinari) distribuiti, anche attingendo a riserve. Il resto deriva dall’acquisto di azioni proprie che il Sole ha regolarmente effettuato dal ’93 al 2000 dalla società Aedificatio, controllata di Confindustria, fino al raggiungimento della soglia massima consentita del 10%. L’ultimo passaggio, di una quota del 4,5% nell’anno 2000 (presidenza Antonio D’Amato), è avvenuto per un controvalore di 57,5 milioni. Un’operazione che la dice lunga sul rapporto finanziario tra controllato e controllante perché l’importo in questione era stato riservato all’acquisto definitivo dell’immobile per la nuova sede milanese del gruppo, in via Monte Rosa. Invece non se ne fece niente e i quattrini finirono in viale dell’Astronomia, a Roma. Ci possono essere poi altri canali attraverso i quali si creano flussi «correlati». Si pensi all’attività di organizzazione di convegni o alle collaborazioni e consulenze che per il quotidiano, negli ultimi 5 anni, hanno superato i 100 milioni. Non a caso i più maligni tra gli osservatori delle cose confindustriali paragonano l’utilizzo finanziario del Sole da parte dell’associazione a quello di «bancomat». Anche perché Confindustria non ne poteva fare a meno.
Di che parliamo? Come si legge nel libro di Filippo Astone, «Il partito dei Padroni», Confindustria è una struttura con 4mila dipendenti, quasi pari a quella del ministero degli Esteri, ambasciate e consolati inclusi. Si calcola inoltre che quasi 2mila imprenditori siano impegnati quasi a tempo pieno in attività associative anche per 18 strutture regionali, 97 provinciali, 21 di settore e 258 organizzazioni associate. Per mantenerla, riceve ogni anno contributi associativi per 500 milioni. Ma questa imponente macchina burocratica è soprattutto un’intelaiatura di potere, con 135mila imprese associate che danno il lavoro a 4,9 milioni di persone. In altri termini, attraverso una struttura capillare e il controllo anche di università a media, l’associazione oggi guidata da Emma Marcegaglia è uno dei poteri veri di questo Paese. E il Sole 24 Ore, negli ultimi 10-15 anni, è stato decisivo nel garantirne il mantenimento e acuirne l’indipendenza. Ma se il bancomat si esaurisce, va da sé che anche il grado di libertà del «partito degli industriali» si riduce pericolosamente.
C’è poi il secondo aspetto, quello della solidità finanziaria del gruppo editoriale. Dalla quale dipendono poi autorevolezza e indipendenza. Il precedente ad Claudio Calabi, sotto la gestione di Montezemolo, ha quotato in Borsa il Sole nel 2007 sulla base di una valutazione di 800 milioni, portandone in cassa 210. Calabi ha valorizzato così la mole di acquisizioni effettuate in quegli anni. Ma ha anche appesantito il gruppo, passato da 1.480 a 2.230 lavoratori, riducendone i margini: il valore aggiunto per dipendente è passato da 123 a 80 milioni e senza ripensare più di tanto i modelli di business. Tanto che con la crisi, il calo della pubblicità 2009 (-28%) è stato il doppio del mercato. Al momento la cassa è ridotta a 80 milioni e gli analisti la vedono tra 50 e 60 a fine anno: sono gli ultimi. Si può vendere qualche attività. Ma cosa succederà se dovesse servire un aumento di capitale?
Per Confindustria due possibilità: o andare a chiedere i denari ai suoi associati proprio quando sono più forti che mai i mal di pancia e le spinte centrifughe a livello locale (a Genova, Venezia, Napoli, in Puglia) e di settore (Fiat, Fincantieri); oppure cercare soluzioni all’esterno, con l’ingresso di nuovi azionisti e la cessione di parte del capitale.

Operazione non facile ora che il titolo, quotato a 5,75 euro, ha chiuso ieri a 1,48%, il 74% in meno, per un valore totale di 170 milioni. Per Marcegaglia, con il mandato all’ultimo anno, un’unica consolazione: comunque vada, non sarà un problema suo. Bensì del prossimo presidente di Confindustria.

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