Si dice spesso che i militari siano sempre preparati a vincere la guerra precedente (di cui ormai si sa tutto) e mai quella in corso. Figuriamoci quelle del futuro. Eppure, in un mondo dove la fine della Storia prevista da Francis Fukuyama non è mai arrivata e la presunta fine della Guerra fredda non si è mai trasformata in pace, il livello di conflittualità non sembra accennare a scendere, anzi. Si combatte un numero elevatissimo di conflitti asimmetrici che rischiano, alla lunga, di innescare anche conflitti su larga scala dagli esiti tanto imprevedibili quanto letali. Ecco allora perché la strategia e la politica devono comunque cercare di ragionare, per quanto difficile, in prospettiva.
L'arte della previsione è quella che sviluppa il generale Fabio Mini, ex capo di Stato maggiore del comando Nato del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. Nel suo nuovo libro Che guerra sarà (il Mulino, pagg. 170, euro 15) delinea gli sviluppi della tecnologia bellica e le aree di tensione geopolitica che potrebbero diventare davvero pericolose nei prossimi anni.
Uno dei nodi chiave evidenziato con chiarezza è che se le guerre attuali, altamente asimmetriche, hanno una forma liquida e spesso imprevedibile (anche nella durata), esistono tensioni sotterranee di lungo periodo che potrebbero acuirsi negli anni e portare a scontri di ben altra entità. Insomma la guerra «perpetua» di oggi potrebbe sfociare in qualcosa di diverso.
Mini proprio per questo dedica largo spazio nel volume alla parte geopolitica. Così parlando con il Giornale identifica i focolai di tensione che potrebbero innescarsi più in fretta: «Nell'arco dei prossimi 10 anni, diciamo in una prospettiva che arriva al 2025/30, le zone più calde resteranno due. Il Medio Oriente dove esiste una forte linea di tensione tra Arabia Saudita e Iran. L'Iran è anche legato alla Siria e questo mette in costante allarme Israele. E in quella zona Israele è il Paese che più ha i mezzi e la determinazione necessaria a una azione militare». L'altra zona ad alta tensione, spiega Mini, è il confine tra le due Coree: «In quell'area io credo che nei prossimi 5-10 anni debba per forza accadere qualcosa. Può essere un conflitto oppure può esserci un intervento pacificatore di qualche genere portato avanti da Cina e Russia. Ma una svolta è inevitabile». Ed è questo un caso in cui la sproporzione di forze e tecnologia non può bastare da sola a impedire il disastro. «Senza dubbio gli Usa possono intervenire con un bombardamento strategico che metta fuori combattimento i vettori delle armi nucleari nordcoreane o metta fuori uso le testate stesse. Ma l'armamento convenzionale coreano è in grado di fare enormi danni in pochissimo tempo nella zona di Seul, che è ad alta densità abitativa e industriale. Non è possibile rendere inefficace questo complesso di artiglierie e sistemi missilistici. Anche distruggendo i centri di comando è predisposto per agire in autonomia. Una reazione devastante è inevitabile. Poi ci sono i corpi speciali nordcoreani che con tutta probabilità potrebbero attaccare e far esplodere centrali nucleari civili sudcoreane. Quindi è auspicabile che non si arrivi a situazioni del genere».
Il nodo delle guerre future è anche questo: ci sono delle tecnologie che irromperanno di sicuro sul campo di battaglia ma è difficile valutarne la capacità di ribaltare la situazione. «Ci sono due filoni che si svilupperanno sicuramente. Da un lato c'è una grande crescita della robotica. Alcuni mezzi robotizzati sono quasi pronti all'uso operativo. Ma sono ancora molto primitivi, sono ancora mere imitazioni della natura, robot da trasporto che sembrano un mulo per intenderci. Nei prossimi anni verranno sviluppate forme e potenzialità nuove, si lavorerà sulla loro autonomia e la loro capacità di adattarsi al campo di battaglia. Il problema grosso sarà quello della logistica di queste macchine. A partire dall'energia. Si andrà verso mini centrali nucleari da campo per alimentarli». L'altro versante è quello del super soldato: «È da tempo che si lavora per migliorare le performance intellettive e fisiche del soldato, la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) statunitense si impegna su questo da almeno un decennio. E poi esisteranno interfacce uomo-macchina sempre più sofisticate. Ma chi si occuperà della logistica? Sempre uomini normali il Pasquale di turno. E non è detto che a un certo punto si stufi di farlo».
Né è detto che la tecnologia sarà sempre la risposta più ovvia alla sfida del campo di battaglia: «Il costo della corsa tecnologica è sempre più elevato. Per ora il risparmio delle vite umane è la priorità dei Paesi occidentali. Bisogna vedere se in contesti diversi il costo di vite umane possa essere considerato meno rilevante del costo della tecnologia. Di certo allo stato attuale gli Usa sono il Paese con il vantaggio tecnologico decisivo e in grado di agire in ogni ambiente e situazione. La Russia è rimasta indietro e, per certi analisti, la sua risorsa principale è la deterrenza nucleare. La Cina è in forte recupero ma per organizzarsi come super potenza globale le servono almeno vent'anni. Dopo la situazione potrebbe mutare profondamente».
Del resto gran parte della ricerca tecnologica odierna è giocata proprio sulla prospettiva di conflitti lontani: «Gli americani non temono tanto le portaerei cinesi quanto le armi anti-portaerei dei cinesi, o i missili russi Tsirkon che dovrebbero avere una gittata di 300-400 kilometri e poter raggiungere mach 8. Si stanno studiando nuove tecnologie come i cannoni a rotaia magnetica, gli Usa li potrebbero rendere operativi a breve su navi come la classe Zumwalt, sparano colpi ipersonici devastanti e precisissimi anche a lunga distanza. Questi proiettili, capaci di arrivare a mach 7 e di perforare, a 160 km, di distanza sei lastre d'acciaio dello spesso di 12 millimetri potrebbero cambiare le regole della guerra navale e terrestre. E un'altra partita si gioca nelle comunicazioni e nella sorveglianza oltre la portata d'orizzonte. Anche le armi a impulso sono in continua evoluzione, come i droni, gli americani stanno sperimentando mini droni come i black hornet che pesano pochi grammi e possono monitorare il campo di battaglia. Ma, come dicevamo, la tecnologia da sola non è in grado di decidere chi vince un conflitto».
E da qui il tema della strategia che cambia e va oltre il concetto di attrito di Clausewitz di non forma ideato da Sun Zu o persino delle teorie dell'OODA loop di John Boyd: «Si sviluppano nuove strategie ma anche nuove dottrine operative. Il problema del generale moderno non è muovere carri armati nel deserto ma il fatto di poter scoprire che il nemico è il suo vicino di casa. A tema c'è la questione che qualunque contesto può trasformarsi in campo di battaglia. Dal '95 ad oggi si è molto ragionato su cosa fare quando questo succede.
Soprattutto per quanto riguarda la sicurezza delle megalopoli. Ora si inizia a ragionare su come prevedere quando si manifesterà la minaccia. Ad esempio chi immaginava che la situazione siriana degenerasse così tanto? Nessuno. Questa è la sfida teorica dei prossimi vent'anni».
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