Quello che Davide Livermore chiama «l'atto umano di ritrovarci a teatro» è per il regista (ma anche scenografo, costumista, coreografo, scrittore, attore e cantante) torinese un'opportunità di condivisione che non può concedersi limiti intellettuali né tantomeno limitazioni di budget. Direttore artistico del Teatro Nazionale di Genova dal 2020, Livermore ha cambiato, proprio nel momento pandemico, il modo di offrire teatro al pubblico con soldi pubblici e al contempo essere «al contempo» in molti luoghi e in molti ruoli è una delle peculiarità di questo artista classe 1966 è stato in grado di ritagliarsi spazi di regia come la sua quarta prima al Teatro alla Scala nel 2021.
In questi giorni, la sua firma corre sui cartelloni di una operazione colossale come l'intera Orestea di Eschilo (da oggi al 6 aprile al Teatro Carignano di Torino, in singola recita o in maratona), lanciata a Siracusa, e i Contes d'Hoffmann di Offenbach alla Scala (fino al 31 marzo). Si potrebbe dire che gli sia propria la cifra del grandioso e chiuderla così, ma la verità è che le ambizioni di Livermore sembrano altre: rimettere al centro il teatro fregandosene delle trappole piazzate da chi lo vuole svalutato e in agonia. Fare share con la qualità. Farli morire prima di invidia e poi di vivere di desiderio, quelli che un biglietto per un suo spettacolo ancora non ce l'hanno.
Maratona Orestea: dopo Genova, l'1 e il 2 aprile gli spettatori si godranno Agamennone, Coefore, Eumenidi: cinque ore di Eschilo. Secondo gli algoritmi, la nostra attenzione media è 8 secondi, meno di un pesce rosso: come la mettiamo?
«Questo è quello che vogliono farci credere. Io porto in tournée con il teatro di Genova spettacoli da tre ore con intervallo di venti minuti, sempre sold out. Gli spettatori vanno dai 12 ai 90 anni e non fiatano. I ragazzi non hanno bisogno di essere preparati chissà quanto: andare a teatro non è un esame di laurea. Se bisogna prepararsi magari vuol dire che lo spettacolo fa schifo. Non abbasso il livello con un premasticato, ma creo uno spettacolo luminoso: non tutti avranno una comprensione di filologia, ricerca storica, ricostruzione drammatica, ma avranno accesso alla bellezza. Le persone sono intelligenti: questa intelligenza merita linee di credito».
Suggerimenti operativi per raggiungere questo obiettivo?
«Primo: la qualità è pop. Anzi, l'altissima qualità è pop. Anche il più disinteressato alla moda, se prende in mano il cappotto di un discount e un cappotto di Dolce & Gabbana capisce immediatamente dov'è la qualità. Come umani siamo tanto attratti dalla bassezza e dalla mediocrità quanto dalle cose alte, luminose, divine della nostra anima. Dobbiamo scegliere noi, come teatranti e gestori, come parliamo alla gente, a che livello ci portiamo: è autoreferenziale o è di livello assoluto? E io, li conosco i livelli assoluti?».
Vale anche per la critica? I suoi Contes d'Hoffmann sono stati elogiati ma anche attaccati.
«Se quattro blogger scrivono idiozie senza nemmeno essere iscritti all'albo dei giornalisti e poi però Orestea fa sold out - e questa Orestea a Siracusa, e Agammenone in particolare, ha battuto ogni record di prevendita biglietti a singola recita nella storia dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico Maria Stuarda fa sold out e milioni di persone, come è capitato con le mie quattro inaugurazioni alla Scala, che non hanno mai visto l'opera la vedono e sono felici di farlo e capirla, che all'intellighenzia piaccia o non piaccia non mi interessa più».
Che cosa porta il pubblico verso il teatro?
«Capisco la storia? Questa è la prima cosa. A me piace che si entri nelle virtù teatrali: raccontare una storia e fare in modo che venga capita dall'inizio alla fine, perfettamente, insieme alle relazioni tra i personaggi. Poi: il rispetto del testo originale. Non sono io che ho scritto il testo. Se voglio fare l'autore, prendo i miei coglioni - parlo così per rabbia agonistica, non per mancanza di rispetto ovvero santa pazienza, coraggio, determinazione, e mi metto a scrivere: non manipolo testi altrui. Perché altrimenti continuiamo a entrare in mondi autoriferiti, dove se devo mettere in scena Amleto e comincio - come mi è stato proposto anche da alcuni registi - dal terzo atto, do per scontato che la gente conosca già Amleto».
Lei come ha fatto con Eschilo?
«Orestea è stata rispettata totalmente: tagli minimissimi. Questo per me è un nord totale: venti minuti di applausi, teatri pieni e persone che possono comprendere la storia, il che li porta a proprio agio nel capire il livello poetico».
La sua Orestea è una produzione enorme, ha una lista di sponsor lunghissima, primedonne come Laura Marinoni e Anna Della Rosa. Che cosa la rende indimenticabile?
«Tutte le arti in scena nella simultaneità della tragedia. Due in particolare. L'arte visiva, con un vj set che si codifica in oltre 50 metri quadri di ledwall, superfici piane che sembrano rotanti e tridimensionali, installazioni video ed effetti visivi. La seconda arte, tutta contemporanea, è l'ingegneria del suono. Non stiamo parlando di amplificare, ma di dare il senso dello spazio, del timbro e della qualità del suono come facevano i greci con le maschere di rame o le anfore messi sotto i suonatori di flauti e cetre: dolby surround di altissimo livello per una esperienza fisica di immersione nell'arte attoriale. Una densità tale da essere lotta sull'hic et nunc: certe cose le puoi vivere solo lì, nell'edificio teatrale, in quel momento irripetibile nella tua vita».
Sembra un concerto rock.
«La miglior installazione pop rock che si possa immaginare oggi: come un concerto dei Pink Floyd, ma in più c'è Eschilo. Possibile perché la tragedia non è prosa e questo non lo ha inventato Livermore: la tragedia è il nonno del teatro dell'opera e la parola è sostenuta dagli effetti della musica, è armonia al servizio della poesia. Vieni e godi, non vieni e soffri: vieni e passi un tempo importante, per cui ti ricordi com'eri prima e come sei dopo».
Come sta il teatro, oggi?
«Da direttore artistico vedo che non ha voglia di raccontare storie: così il pubblico diventa quello de noantri e il teatro ha la riconoscibilità di un'assemblea di condominio. L'ambiente teatrale dovrebbe smettere di conferirsi un'allure di purezza contro quelli che fanno le fiction o che hanno più soldi».
E fare che cosa invece?
«Fuori il petto e parlare al mondo, non lamentarsi con gli amici del salotto. Andiamo a teatro non può essere una scelta tra il ristorante giapponese e il pilates. Non giochiamo in quel campionato lì: non siamo intrattenimento, siamo arte e questo va fatto capire prima di tutto agli artisti: non siamo in competizione né con il sushi né con Netflix.
Abbiamo chiuso la prospettiva artistica, fatto sentire il teatro obsoleto, abbandonato le grandi produzioni, ridotto due generazioni di artisti a dire: Ma sì, dai, facciamo uno spettacolino e costiamo poco. Ma perché dobbiamo costare poco? È attraverso le idee che si trovano i soldi».
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