Teatri con meno di cento posti. Piccoli teatri, anzi piccolissimi. Ce ne sono a decine, in Italia, concentrati nelle grandi città; e non parliamo di produzioni o compagnie amatoriali, ma di fior di professionisti che mettono in scena un programma stagionale di spettacoli classici o di avanguardia. Per pochi spettatori e con pochissimi soldi, dato che non percepiscono neppure i finanziamenti statali con cui invece i teatri medi e grandi tirano a campare.
Eppure, nell'era del tramonto delle sale cinematografiche, il teatro sarebbe un'alternativa. È per definizione un'esperienza fisica. Non ti entra in casa come Netflix. Bisogna proprio andarci. Stare in mezzo agli altri. Le grandi sale, i nomi storici, hanno cartelloni che si assomigliano tutti. Corrono dietro al personaggio televisivo, al nome di richiamo (mediatico), all'escamotage del musical, che sempre teatro è, ma pop-canzonettistico.
Il palco vero, d'autore, coraggioso e sperimentale, prolifera più di quanto si pensi, in spazi anche molto ridotti. Abbiamo spazio solo per alcuni esempi fra i tanti.
A Milano, i piccolissimi teatri sono nati negli anni Settanta, in capo a una cultura alternativa ideologica e di sinistra. In periferia, da viale Monza fino a sud dei Navigli. Tempi di fermenti culturali, poi sopiti dall'edonismo degli anni Ottanta e Novanta. Dopodiché la rinascita, non più sulla base della lotta di classe, ma per l'inquietudine di tentare nuove strade artistiche. Un esempio: il teatro PimOff, di Maria Pietroleonardo, una signora tenace partita da via Tertulliano vent'anni fa in una sala da ballo in mezzo ai capannoni industriali, contigua a una scuola di danza e a un bar con musica dal vivo, il Goganga. Una volta decollata, si è trasferita nella periferia sud di Milano, sull'orlo del Gratosoglio, area di alveari dormitorio, dove tutto si penserebbe d'incontrare fuorché il teatro di ricerca. In questo capannone squadrato, sironiano, si muovono compagnie emergenti e artisti di danza contemporanea. E per fortuna un mecenate sostiene il lusso della libertà creativa. Perché diciamolo: senza filantropia, non c'è piccolo teatro.
Infatti è anche grazie al sostegno della società di consulenza strategica IbeHuman, che in quello stesso edificio di via Tertulliano, Giuseppe Scordio, allievo del grande Giulio Bosetti, si pone il fine di traghettare il teatro della tradizione in quello sperimentale. Nello Spazio Tertulliano, spiega, «proviamo forme di contaminazione. Do molto spazio a compagnie giovani, formate da ragazzi usciti dalle principali scuole di teatro: la Paolo Grassi, la scuola del Piccolo e l'Accademia dei Filodrammatici. E mi appoggio anche ad attori eccellenti, come Antonio Salines (recentemente scomparso) ed Enrico Bonavera, l'attuale Arlecchino del Piccolo. Ovviamente, se ripropongo Così è se vi pare non posso farlo con 15 attori, devo adattarlo. Durante il lockdown abbiamo lavorato su un formato cinematografico de La tempesta di Shakespeare, che porteremo anche sul palco». Interessante il recupero del Grand Guignol, l'antesignano teatrale dello splatter. Ne è nato anche un corso che insegna a «ridere della morte».
I piccoli teatri non ce la farebbero se non organizzassero scuole e corsi. «La parola scuola è esagerata,» spiega ancora Scordio. «Presuppone la costruzione di un'eventuale carriera. Noi organizziamo corsi, a cui partecipa gente dai 4 agli 80 anni. Un centinaio di allievi, in media». È sorprendente, a fronte di un interesse per il teatro che sembra andare diminuendo, come aumenti il numero dei giovanissimi che vogliono fare gli attori.
Diminuisce il pubblico, aumentano i piccoli teatri. Sembra una contraddizione. Sarà per quello che uno si chiama proprio così. Il Teatro della Contraddizione è a Milano a Porta Romana (via privata della Braida). Ha una propria compagnia diretta da Marco Maria Linzi, con Sabrina Faroldi e Micaela Brignone. Da circa un quarto di secolo, in questo piccolo spazio che può ricordare l'atmosfera di un cabaret tedesco degli anni Venti, la separazione fra scena e platea, fra lo spazio del pubblico e quello degli attori si è fatta sempre più tenue. Non si assiste: si partecipa. Anche qui, formule miste: per esempio la danza contemporanea di Daria Menichetti, con Animula e Iki, che andranno in scena dal 19 al 22 gennaio.
LabArca, scritto proprio così, con un termine destrutturabile, è un altro luogo milanese di fermenti vari. Sui Navigli, in via Marco D'Oggiono, è sotto il livello del suolo, con lucernari che proiettano una luce sottomarina. Animato da Egidio Bertazzoni e Anna Bonel, celebrerà dal 15 gennaio la giornata della memoria con Diario di un figlio che vede in scena Renato Sarti, attore di cinema impegnato.
A Roma, in via della Penitenza (Trastevere) c'è il più piccolo teatro d'Italia, uno dei più piccoli d'Europa (40 posti): Stanze Segrete. O meglio, c'era, perché a fine mese chiude. Dal 10 al 29 gennaio si terranno le repliche dell'ultimo spettacolo, che fu anche il primo: A cena col diavolo (Le Souper) di Jean Claude Brisville. Dopo 27 anni. La fondatrice, Aurora Cafagna, è mancata nel 1997 e da allora la direzione artistica è di Ennio Coltorti, illustre attore, regista e doppiatore, oggi ultrasettantenne.
«Tutto ciò che sta nei grandi teatri nasce dai piccoli,» ci dice Coltorti. Ed elenca una serie di nomi oggi conosciutissimi che i piccoli spazi e le piccole rassegne hanno contribuito a lanciare: attori come Francesco Pannofino o Patrick Rossi Gastaldi, che oggi godono di grande esposizione mediatica. «Già nel 1985 organizzavo a Roma una rassegna, Attori in cerca d'autore', al teatro Valle. Sono passati Paolo Rossi, Castellitto, Bisio, Barbareschi, Rubini, Insinna, e tantissimi altri. Non li conosceva nessuno. E non c'erano soldi. Chiudemmo nel 2005. Nel frattempo, Stanze segrete ha resistito fino al covid. Poi abbiamo dovuto mollare. Siamo fuori dai bandi pubblici, i soldi vanno ai teatri stabili, che mettono in scena nomi televisivi. Dominano i giochi politici. Noi siamo trattati come fuorilegge', schiacciati dall'elefante burocratico, una forza anche più efficace delle armi».
Ed è anche per questo che i piccoli, o piccolissimi teatri sono confinati entro il limite dei 99 posti. Superata quella soglia, si hanno obblighi giganteschi, insuperabili per le spese. «Non faccio l'eroe di professione,» si sfoga Coltorti. «E non mi abbasso ad alcuno scambio politico».
Eppure i piccoli palchi nascono ovunque, anche in forme semiclandestine. A Torino, il Balconcino, in un cortile in via Mercanti 3, è diventato un appuntamento fisso domenicale per musica, poesia, e recitazione, appunto. E il tribunale di Torino ha da poco assolto gli organizzatori dall'accusa di disturbo della quiete pubblica.
A nove mini-teatri milanesi è dedicata la mostra Foyer, a cura di Roberto Borghi, nello spazio Carroccio 6, all'omonimo indirizzo.
Nove artisti, fra i quali Anna Muzi Falconi e Gian Marco Capraro, sono stati chiamati per rappresentare il ridotto di altrettanti teatri. L'arte visiva si sposa al design, all'architettura e all'arredamento, in un gioco di rimandi fra discipline. In altre parole: andare a teatro può essere molto più che andare solo a vedere uno spettacolo.
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