Teheran, lettera di una condannata

Shirin Alam Hooli, militante curda, è stata impiccata ieri. Due anni senza avvocati. "Non so neanche perché sono in cella".  La ragazza, 29 anni, non parlava farsi: non ha potuto difendersi dalle accuse

Teheran, lettera di una condannata

«Le torture sono il mio incubo. Soffro di continuo. I dolori causati dalle sevizie patite qui in carcere non mi danno tregua. I colpi alla testa durante gli interrogatori mi hanno causato dei gravi traumi, soffro di continue, insopportabili emicranie. Il naso sanguina per ore. Continuo a svenire. L’altro “regalo” delle torture sono i danni alla vista. Cala di giorno in giorno. Ho chiesto un paio di occhiali, ma non ho avuto risposta. Quando sono entrata qui dentro, tre anni fa, avevo i capelli neri, adesso stanno diventando tutti bianchi».
È un distillato di sofferenza in arrivo dall’Iran. È una lettera dall’aldilà. Una lettera dal patibolo. È l’ultima lettera di Shirin Alam Hooli, 29 anni. Me l’hanno spedita i suoi amici. Una specie di messaggio nella bottiglia. Un’ultima flebile speranza affidata all’oceano dell’informazione internazionale per salvare dalla forca una donna 29enne colpevole soltanto di essere nata curda. Non è servito. Ieri mattina, quando l’ho scaricata dalla posta elettronica, Shirin era già morta. Penzolava da una forca dietro le mura del carcere di Evin, a Teheran, assieme a Farzad Kamangar, Ali Heydarian, Farhad Vakili e Mehdi Islamian, altri quattro curdi accusati, come lei, di militare nel Partito del Kurdistan Vita Libera e condannati come lei alla pena capitale con l’accusa d’essere “Mohareb”, “nemici di Dio”.

Shirin in verità è morta senza neppure sapere perché era stata condannata. Come annota in questa ultima lettera disperata rivolta ora ai suoi aguzzini, ora a tutti noi, le sue origini curde, la sua lingua così diversa dal “farsi” parlato dal cosiddetto “tribunale rivoluzionario” non le hanno a volte permesso di comprendere le imputazioni. «Quando m’ interrogavate non riuscivo a parlare la vostra lingua, non capivo quello che dicevate. Ho imparato un po’ di “farsi” negli ultimi due anni chiacchierando con le mie amiche nel braccio femminile. Ma voi mi avete interrogato e condannato nella vostra lingua per non farmi capire e non permettermi di difendermi». Quando il 2 maggio butta giù questi pensieri Shirin sa di non avere più speranze. «Sto entrando nel terzo anno di prigionia, tre anni nelle peggiori condizioni dietro le sbarre di Evin. Ho passato i primi due anni in stato di detenzione preventiva senza nemmeno un avvocato. Le mie richieste di conoscere i capi d’imputazione non hanno ricevuto risposta fino a quando sono stata ingiustamente condannata a morte. Perché sono stata arrestata? Perché sto per essere mandata al patibolo? Per quale crimine? Perché sono curda? Se questa è la ragione fatemelo dire, sono nata curda. La mia lingua è il curdo. La sola lingua usata con familiari e amici, la sola unica parlata fino a quando sono diventata grande è stato il curdo. Ma oggi non mi è consentito né parlarla, né studiarla. Mi chiedono di negare la mia identità curda, ma farlo sarebbe come negare la mia stessa esistenza».

Shirin in quelle ore è appena tornata dall’ultimo interrogatorio. In quell’incontro cruciale con i suoi aguzzini si è rifiutato di concedere una confessione pubblica davanti ai microfoni e agli obbiettivi della televisione nazionale. Ha insomma appena rinunciato all’ultima possibilità di sottrarsi alla forca. «Oggi è il 2 maggio 2010, mi hanno portato un’altra volta alla sezione 209 del carcere di Evin per interrogarmi. Mi hanno chiesto di collaborare per ottenere il perdono e non venir giustiziata. Non riesco a capire cosa intendano quando mi propongono di collaborare. Oltre a quanto ho già detto non ho proprio nulla da dire. Pretendevano di farmi ripetere parola per parola quello che volevano loro, ma mi sono rifiutato. Loro mi dicevano “volevamo rilasciarti l’anno scorso, ma la tua famiglia non ha accettato di collaborare per questo siamo arrivati a questo punto”. Alla fine, però, hanno ammesso che sono solo un ostaggio. Uno di loro me l’ha spiegato chiaramente, non mi libereranno - ha detto - fino a quando non avranno ottenuto il loro scopo. Non mi lasceranno andare fino a quando non farò quello che vogliono. Mi terranno prigioniera per sempre o mi manderanno al patibolo». È l’ultimo pensiero di Shirin.

Dopo ci sono la sua firma, la data del 3 maggio e la parola «serkefitn». In curdo significa vittoria. Shirin ha resistito ai suoi aguzzini. Non ha regalato loro la propria confessione. È andata a testa al patibolo. S’è conquistata l’ultima, estrema, disperata vittoria.

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