"Telelavoro pubblico? Tutti finti i sistemi per valutare i risultati"

Cottarelli: "Lo Stato non è in grado di misurare la sua produttività"

"Telelavoro pubblico? Tutti finti i sistemi per valutare i risultati"

La parola magica è una sola: smart working. Anche per gli uffici pubblici. Fabiana Dadone, ministro per la Pubblica amministrazione, ha parlato con soddisfazione dell'80% degli impiegati delle amministrazioni centrali impegnati nel telelavoro nel momento di picco del lockdown. La percentuale scende al 69% per gli addetti delle Regioni.

A queste stime che nelle intenzioni dovrebbero essere prova di efficienza e di capacità di adattamento ha risposto un esperto di diritto del lavoro come Pietro Ichino («Lo smart working? Per i dipendenti pubblici spesso è vacanza»), mentre le polemiche scoppiate in Sicilia dopo le dichiarazioni del presidente della Regione Nello Musumeci e del dirigente generale del dipartimento Energia Salvatore D'Urso (vedi l'articolo a fianco) hanno sottolineato gli aspetti più critici del cosiddetto «lavoro agile» nel settore pubblico.

Eppure per il ministro Dadone, lo smart working degli ultimi mesi negli uffici pubblici è stata una svolta importante. Una volta per tutte, ha dichiarato, si è superato il principio per cui la produttività è commisurata alle ore lavorate, «e invece si valuta se e cosa il dipendente produce in base all'obiettivo fornito dal dirigente».

L'impostazione non convince però Carlo Cottarelli, che dirige l'Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica. «In realtà molti documenti negli uffici pubblici sono ancora cartacei e quindi non sono accessibili a chi lavora in remoto», dice Cottarelli. «Il punto vero, però, è un altro. Lo smart working è basato, appunto, sul raggiungimento di risultati. Ma nella pubblica amministrazione italiana non c'è nessun sistema valido per la loro misurazione. A tutti i livelli. Quindi, finché sono in ufficio, i dipendenti pubblici li vedi almeno lavorare. Ma se stanno a casa non c'è modo di valutare come e cosa stanno facendo».

In realtà, racconta Cottarelli, a livello centrale i sistemi per la valutazione dei risultati sarebbero addirittura due. Il primo viene gestito dal Dipartimento per la Funzione Pubblica costituito presso la Presidenza del Consiglio in base alla legge Brunetta del 2009. Il secondo invece fa capo alla Ragioneria Generale dello Stato ed è stato creato con un'altra legge, sempre del 2009, che istituiva i cosiddetti programmi di spesa. «I sistemi sono due, non parlano tra di loro, ma soprattutto sono giganteschi pro-forma: si basano su indicatori spesso del tutto irrilevanti, che dal punto di vista concreto non misurano un bel niente. Tra gli indici che dovrebbero contribuire a valutare la produttività c'è, per esempio, il numero delle riunioni fatte, un dato che non ha davvero senso comunque lo si guardi».

Allo stesso modo e forse anche peggio vanno le cose a livello di singoli ministeri. «Sono previsti rapporti annuali, enti indipendenti che dovrebbero certificare la correttezza di questi rapporti, con i loro bravi indicatori di performance. Ma è tutta forma e niente sostanza.

Il massimo è il rapporto con cui il Ministero della Giustizia dovrebbe fissare l'obiettivo per la durata massima della lunghezza dei processi: prende la durata dell'anno precedente ci aggiunge un certo lasso di tempo per avere un margine e raggiungere l'obbiettivo. L'indicatore di efficienza è tutto qui».

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