Dal tennis alla guerra cercando di ricostruire: Anna Prouse, un'italiana al fronte (per la pace)

È stata in Irak otto anni, prima dirigendo un ospedale da campo a Baghdad per la Croce Rossa, poi inviata da Petraeus nel Sud: "Io mi occupavo di cuori e menti Il mattone viene dopo: prima bisogna ridare fiducia"

Dal tennis alla guerra cercando di ricostruire: Anna Prouse, un'italiana al fronte (per la pace)
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Un attacco a colpi di mitragliatrici per le strade di Baghdad. Otto razzi contro l'hotel Al-Rasheed, sempre nella capitale irachena. Un'esplosione a Suq al-Shuyukh, non lontano da Nassiriya. «Sì, sopravvivere a tre attentati non è da tutti. Molti venivano in Iraq, restavano qualche mese o un anno e poi se ne andavano: era troppo pericoloso». Per Anna Prouse (nella foto) no. «È perché ho avuto un'infanzia molto difficile, con abusi terrificanti da parte di mia mamma. Soprattutto abusi mentali: umiliazioni, non mi faceva mangiare, voleva farmi cambiare la faccia da un chirurgo a 13 anni... L'Iraq era una passeggiata, per me. Che un iracheno volesse uccidermi aveva una sua logica, che mia madre mi odiasse no». È così che Anna Prouse, milanese, promessa del tennis che vede infrangersi il suo sogno a 16 anni a causa di un ginocchio, ha affrontato otto anni in Iraq, come racconta nella sua autobiografia Della mia guerra, della mia pace (HarperCollins). Ne parlerà anche oggi, al Salone di Torino, nell'incontro «Trasformare il dolore in speranza. Sguardi e racconti dal fronte» (ore 12, Arena Piemonte, Pad. 2).

Dal 2003 al 2011, Prouse è stata impegnata prima nella costruzione di un ospedale da campo a Baghdad per la Croce Rossa come delegata internazionale, poi è stata a capo della ricostruzione nella provincia meridionale del Dhi Qar, quella di Nasiriyah: a volerla è stato direttamente il generale Petraeus. Superando la burocrazia e i passaporti, gli Stati Uniti hanno scelto un'italiana. «Non ero lì per il mattone, bensì per ricostruire cuori e menti. Piano piano. Bisognava ridare fiducia alle persone, fare vedere agli iracheni come si potesse vivere dopo la dittatura». «Annina», come la chiamavano tutti, non si è mai fermata: né davanti alle intimidazioni del governatore della provincia (che ha provato a ucciderla), né davanti a una fatwa che il famigerato Muqtada al-Sadr aveva deciso di lanciare contro di lei. «Mi sono rivolta in sordina agli iracheni, evitando la retorica delle superpotenze e il testosterone... La fatwa era una mossa geniale. Non poteva farmi fuori perché sarebbe stato controproducente, visto che la gente mi adorava: andavo al parco alla sera, salivo sulle montagne russe, facevo i picnic, insomma mostravo il lato umano di noi occidentali. Del resto non ci avevano mai visto, se non in guerra. Così, per non giocarsi le elezioni nel Sud, Muqtada al-Sadr pensò di scagliare Dio contro di me». A salvarla è stato un generale iracheno, tramite i suoi contatti con il potentissimo collega iraniano Qasem Soleimani (poi ucciso nel 2020), l'unico in grado di fermare al-Sadr: «Se un iracheno mette a rischio la sua vita per salvare la tua, allora vuol dire che hai avuto davvero successo».

Nel suo libro, Anna Prouse racconta bene come sia arrivata in Iraq da convinta avversaria dell'intervento americano e poi abbia scoperto che «ci sono i grigi», da una parte e dall'altra: «Siamo lì, civili e militari, e ciascuno fa il suo mestiere. Sono qui in America grazie a Petraeus, un uomo dalla cultura raffinatissima. Quanto agli iracheni, è facile, dai divani, parlare di un mondo violento: ma io a quattro anni giocavo con il Lego, non mi ritrovavo con in mano un kalashnikov per difendere mia mamma da uno stupro. E poi, la pace nel mondo non c'è. Nessuno vuole la guerra, i militari per primi: eppure, se chiamati, corrono a difendere il nostro Paese». Anna Prouse è stata anche nominata Cavaliere al merito della Repubblica Italiana: «Vorrei tornare a servire il mio Paese. Negli Stati Uniti mi hanno già chiesto se sia interessata alla ricostruzione di Gaza. Ovviamente si parla del dopo: la health diplomacy, quella che ho usato io in Iraq, è uno strumento eccellente per avvicinarsi alla popolazione.

E, oltre agli ospedali, va ricostruito anche il mattone, piano piano. Noi italiani siamo bravi: perché non sfruttare le nostre eccellenze anche in questo? Non sarà perfetto, sarà pericoloso, ma da qualche parte bisogna sempre cominciare...».

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