Il testamento degli Strugackij è l'antiutopia diventata realtà

Il misuratore del talento letterario e i nuovi pifferai magici. La Russia degli anni '80 sorpassa il presente

La gara fra realtà e fantascienza ha ormai assunto il ritmo incalzante di un testa-a-testa: non appena prevale di un'incollatura la seconda, subito la prima sprinta e riprende, seppure di poco, il comando. E viceversa. Il duello sarebbe forse avvincente, agli occhi di un venusiano o di un plutoniano, ma per quelli di un terrestre non è un bel vedere. Perché i terrestri sono parte in causa, essendo in sella alla realtà, e questa corsa verso il futuro in cui il traguardo viene spostato sempre un po' più in là, fa montare la loro inquietudine, trasformandola in angoscia. Quando poi il terreno su cui realtà e fantascienza si sfidano è quello dell'intelligenza, dell'atto creativo, vale a dire di ciò che i terrestri credono (o sperano?) sia una loro esclusiva, arriviamo al parossismo.

Non c'è bisogno di andare molto lontano, per averne un esempio, è sufficiente tornare alla pagina 23 dell'1 marzo scorso di questo giornale. Il titolo era: «Se l'Ia decide chi è degno dei suoi versi». Protagonisti sono i chatbot, quelle applicazioni di Ia, cioè Intelligenza artificiale, realizzate per dialogare (chattare) con gli umani. Se li interpelliamo, i chatbot ci rispondono, e sono persino capaci, come nel caso trattato in quell'articolo, di inventare epinici in onore di un uomo politico. O di rifiutarsi di farlo, spiegando che la richiesta implicherebbe «giudizi di valore soggettivi», laddove compito di un bravo (o di una brava) chatbot è «fornire informazioni obiettive e neutrali». Sicché apprendiamo che anche l'Intelligenza artificiale, all'occorrenza, si rifugia dietro il «no comment»...

Dici «intelligenza», dici «atto creativo» e dunque dici letteratura. Nella letteratura abitano la memoria, la fantasia, la riflessione, il giudizio: tutti atti creativi figli dell'intelligenza. E la letteratura fantascientifica non fa eccezione, anzi, gettando il cuore e la mente oltre gli ostacoli (quasi desueti, par di capire) di tempo e spazio, quella che probabilmente anche i chatbot chiamano sci-fi ci comunica quanto la realtà sia legata a doppio filo con ciò che reale non è, qui e ora, ma potrebbe esserlo già da domani mattina.

Il nostro titolo dell'1 marzo citato, calzerebbe quasi a pennello anche sopra questo articolo. Che non tratta di realtà, ma di una branca della fantascienza chiamata antiutopia. Perché questo era il pane e la vodka dei fratelli russi Arkadij (1925-91) e Boris (1933-2012) Strugackij, soprattutto nell'ultimo romanzo che scrissero insieme, Destino zoppo, uscito la prima volta a puntate sulla rivista Neva nel 1986. Di fatto, qui i romanzi sono due, perché due sono gli scrittori protagonisti: Sorokin che scrive in prima persona, e Banev, protagonista di un romanzo intitolato Brutti cigni. Da buoni compagni, a Sorokin e Banev spettano cinque capitoli a testa, e non sapremmo dire chi dei due risulti, alla fine, il più antiutopico. Ora che Destino zoppo (pagg. 360, euro 18, traduzione di Daniela Liberti) esce per la prima volta in italiano per merito di Carbonio Editore che ha pubblicato negli ultimi quattro anni quattro libri degli Strugackij, facciamo la conoscenza di una specie di Graal antiutopico applicato proprio alla letteratura.

Parla Sorokin, a margine di una delle consuete riunioni del Club degli scrittori moscoviti: « Tutto era già stato inventato. Mi ricordai come quindici anni prima, il defunto Anatolij Efimovic mi aveva aperto il suo cuore e mi aveva raccontato la trama di una sua nuova commedia. L'azione si svolgeva in una Casa dell'attività creativa, e un certo inventore aveva trascinato fino a lì il suo fantastico congegno... Che nome gli aveva dato? Davvero brutto, mi pare... Sì! MISTALET! Misuratore del Talento Letterario. In principio, gli scrittori più idioti si erano rallegrati - finalmente tutti sapranno che Ivanov è una merda, e io sono un genio. Ma quando la macchina aveva iniziato a dispensare la pura verità... In conclusione, l'avevano smontata fino all'ultima vite, e avevano scritto una delazione contro l'inventore con tutte le conseguenze del caso... Com'era afflitto Anatolij Efimovic, quando io, scusandomi e giustificandomi, gli avevo dato da leggere Menzura Zoili di Akutagawa, un racconto scritto nel 1916 e pubblicato in russo alla metà degli anni Trenta! Non è possibile inventare niente. Tutto quello che si può inventare, o è già stato inventato prima di te, o esiste nella realtà».

Bene, ora qualcuno ha ripreso la vecchia idea di Anatolij Efimovic, effettivamente già prefigurata in un racconto di Akutagawa, e l'ha messa realmente in pratica. Quella macchina esiste e l'Istituto di ricerche linguistiche invita tutti gli scrittori moscoviti, quindi anche Sorokin, a sottoporgli un loro scritto a scelta «allo scopo di permettere delle ricerche speciali che riguardavano la teoria dell'informazione, una cosa chiamata entropia del linguaggio...». Così, piegandosi malvolentieri al volere superiore, Sorokin attinge alla sua Cartella Azzurra...

È qui c'è il colpo di genio degli Strugackij. Perché anche loro custodivano una Cartella Azzurra, contenente pagine destinate soltanto al «cassetto della scrivania», troppo pericolose da sottoporre alla censura... Così, riaprirono la loro Cartella Azzurra e, scartato il corposo romanzo La città condannata (Carbonio, 2020), scelsero di affiancare alla vicenda di Sorokin il più agile Brutti cigni, già bocciato dagli occhiuti censori, in cui il protagonista è Banev. Scrive Boris nella Postfazione: «Brutti cigni entrò nel testo di Destino zoppo naturalmente e semplicemente, come una cartuccia nel caricatore. Anche questa era la storia di uno scrittore di un paese totalitario. Anche questa era una storia in una certa misura fantastica e allo stesso tempo realistica. E vi si parlava, in sostanza, delle stesse questioni e degli stessi problemi che assillavano Feliks Sorokin. Il racconto era esattamente quello che avrebbe dovuto scrivere l'uomo e lo scrittore chiamato Feliks Sorokin, l'eroe del romanzo Destino zoppo. E, in realtà, in qualche modo, egli lo ha scritto veramente».

L'antiutopia vissuta da Banev ha un sapore meno tecnologico e più filosofico, rispetto a quella del suo collega Sorokin. Al posto della macchina in grado di stabilire per ogni opera letteraria l'NPLT, il «numero probabile di lettori», qui la variabile, che genera fra l'altro uno scontro generazionale fra genitori e figli, vecchi e giovani, è l'apparizione, in una città di provincia, di una sorta di setta, quella dei «mokrecy», uomini bendati come lebbrosi (e come mummie giunte da un passato-futuro) dotati di poteri sovrannaturali come il governo degli agenti atmosferici. I mokrecy, sottili intellettuali che si nutrono di libri, come il pifferaio di Hamelin stregano i ragazzini più intelligenti e li allontanano dalle loro famiglie. Accade anche con Irma, la figlia di Banev e di sua moglie Lola. Al termine dell'armageddon fra buoni non proprio buonissimi e cattivi non proprio cattivissimi, ecco Irma, «quasi adulta, a piedi scalzi, in un abito semplice e leggero con un ramoscello in mano. La ragazza seguiva il caccia con lo sguardo e, alzando il ramoscello come a volerlo puntare, pronunciò: Pum-pum!». Diana, l'amante di Banev, scoppia a ridere.

Un eccesso di ottimismo, secondo Boris, il quale chiude così la sua nota finale che ha il sapore, come tutto il libro, di un testamento: «I cavalieri della Nuova Apocalisse (...) hanno già sellato i loro cavalli, e non rimane che sperare che il Futuro non castigherà nessuno, non perdonerà nessuno, ma semplicemente proseguirà per la sua strada».

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