Ci sono cose che non cambiano mai. La guerra è una di queste, il western e l'orgoglio americano per l'epopea degli Stati Uniti, pure: tre elementi che si intrecciano alla trama narrativa di un romanzo intenso, Diezmo (Mattioli 1885, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi) di Rick Bass, scardinando le fondamenta stesse del costrutto a stelle e strisce. «Diezmo» è il termine con cui i messicani indicavano la decimazione dei prigionieri di guerra texani. Senza svelare nulla del libro, questa orribile pratica è strettamente legata all'episodio realmente accaduto che Rick Bass ricostruisce magistralmente in quella che finisce per rappresentare una condanna senza appello di ogni slancio militarista, americano o meno. Per farlo, Bass ricorre al tipo di romanzo più americano che ci sia, il «western», appunto, un genere di norma non associato ad analisi etiche che vadano al di là della mera esaltazione dei valori biblici e sfoggi di virilità, e non certo incline a slanci pacifisti. Come diceva un grande regista hollywoodiano, senza perdersi in quisquilie: «Mi chiamo John Ford e faccio film western». Insomma, niente filosofia.
La vicenda è quella della «spedizione Mier» (1842), un'operazione militare votata a un destino fosco in un territorio di confine, il Texas, «nato nel sangue». La scabra intensità della voce narrante, quella del giovane protagonista James Alexander, non lesina sui dettagli più crudi, sottolineando le contraddizioni quasi insanabili di uno Stato giovane come il Texas, l'unico cui sia consentito di battere il proprio vessillo (quello della «stella solitaria») accanto all'Old Glory, la bandiera a stelle e strisce. In tale iato si sostanzia ancor oggi la relazione anomala, sovente conflittuale, tra governo federale e governo locale, tra sobrietà evangelica e cattolicesimo animista latino.
La partenza è programmatica: James Alexander e l'amico James Sheperd si arruolano nella sgangherata milizia texana a sei anni di distanza dall'eroica battaglia di Alamo. Lo fanno per noia, per spirito patrio, per avventatezza adolescenziale. Alexander aprirà subito gli occhi sull'insensatezza della violenza che lo circonda, mentre Sheperd, pur ferito gravemente, svilupperà un'ostinazione quasi patologica nella sua adesione cieca a principi sulla cui validità non ha mai fatto riflessioni serie. Alexander, viceversa, dialoga costantemente con la sua coscienza, ponendosi domande come «che gloria, che gioia deve avere la guerra» per esercitare sui giovani come lui una simile attrazione? A sostenere il narratore è una «atmosfera collettiva di coraggio e audacia» che gli consente di non avere «paura di morire, solo di perdere».
Malgrado il pessimismo antibellico che pervade ogni pagina del romanzo, la
suspense non manca, sostenuta dalla stridente contrapposizione di splendori e bassezze, immancabili in ogni conflitto. Perché, si sa, «tutte le guerre, come le semine, sono uguali... vanno a finire sempre nello stesso modo».
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