Togliatti, il cinico che non volle salvare i prigionieri italiani in Russia

Nel 1943 il leader comunista scrisse che nella morte dei nostri soldati in una guerra fascista vedeva "la giustizia immanente alla Storia"

Togliatti, il cinico che non volle salvare i prigionieri italiani in Russia
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Nel suo recente libro Elogio della storia. L'Italia nella guerra civile europea 1914-1953 (0aks editrice), Aldo G. Ricci (già Sovrintendente dell'Archivio centrale dello Stato e docente di storia contemporanea all'Università Marconi di Roma) ha raccolto un buon numero di suoi saggi, pubblicati in varie sedi, che hanno tutti come argomento la storia italiana del Novecento. Da essi come scrive Ernesto Galli della Loggia nella prefazione al volume c'è molto da imparare. Io vorrei soffermarmi sul saggio La famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Unione Sovietica: in queste pagine la figura, morale e politica, di Palmiro Togliatti viene descritta come meglio non si potrebbe.

Nel 1992 uscì dagli archivi russi una lettera che Togliatti scrisse, nel febbraio del 1943, al dirigente comunista Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern), nella quale rifiutava qualsiasi intervento per limitare le morti tra i prigionieri di guerra italiani in URSS: su 70mila prigionieri, 20mila morirono negli spostamenti coatti; dei 50mila rimasti, ne sopravvissero solo 10mila. Nella sua lunghissima lettera Togliatti, dopo essersi dichiarato sarcasticamente umanitario come «una dama della Croce Rossa», ricordava che la posizione di principio nei confronti degli eserciti invasori era stata definita da Stalin una volta per tutte. Nella pratica, se un buon numero di prigionieri fosse morto «in conseguenza delle dure condizioni di fatto», questo sarebbe stato «il migliore e il più efficace degli antidoti» per migliaia di famiglie nei confronti della guerra fascista, e quindi per l'avvenire dell'Italia. Nelle durezze oggettive che potevano provocare la fine di molti prigionieri, concludeva il segretario del PCI, «non riesco a vedere altro che la concreta espressione della giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la Storia».

Nel 1992 le reazioni della politica e dei commentatori alla lettera di Togliatti del febbraio 1943 andarono dallo stupore alla meraviglia, dallo sconcerto all'orrore. Ma quella lettera esprimeva perfettamente la personalità di Togliatti, il quale, durante i processi di Mosca nella seconda metà degli anni Trenta, definì «cani rabbiosi» i vecchi bolscevichi condannati a morte dai tribunali staliniani; che in Spagna collaborò alla eliminazione dei dirigenti anarchici e trockisti; che nel 1937 aggiunse la sua firma al documento dell'Internazionale che prevedeva l'eliminazione di 200 dirigenti comunisti polacchi; e l'elenco potrebbe continuare a lungo.

Ecco perché, dice giustamente Ricci, appare assolutamente incongruo parlare come fece Giorgio Napolitano, in occasione della pubblicazione della lettera di «tragica contraddittorietà» a proposito della figura e dell'opera di Togliatti. In realtà la lettera del leader comunista aveva una sua innegabile anche se agghiacciante coerenza. Senza nulla togliere al giusto orrore che si prova di fronte a una così tranquilla esibizione di cinismo, il calcolo dell'effetto politico di quelle migliaia di soldati italiani morti rientrava perfettamente nella logica che governava le scelte di Togliatti e del movimento comunista internazionale. Chi era abituato a veder morire accanto a lui i compagni dissidenti, se non a provocarne egli stesso la rovina; chi conosceva i milioni di «nemici del popolo» che passavano per i gulag in nome della vittoria della rivoluzione, poteva tranquillamente invocare la giustizia immanente alla storia, di hegeliana memoria, per la morte di migliaia di connazionali prigionieri nei campi sovietici.

Tutto questo, dice Ricci, è il passato remoto della sinistra comunista, che nel suo passato prossimo (trent'anni fa) ancora ne giustificava le presunte contraddizioni in nome delle necessità del «progresso storico».

Poi, tra i ripetuti cambi di nome, ma in assenza di riflessioni critiche sulla propria storia, un silenzio tombale e un buco nero in cui non c'è più passato, il presente è nebulizzato e il futuro è confinato fuori da ogni possibile orizzonte decifrabile.

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