Pochi artisti hanno patito un misterioso oscuramento, un vero e proprio oblio, così totale e crudele, sprofondando in una notte densa e impenetrabile, come Colombotto Rosso. Il suo rifugio, la sua casa della vita, e infine il suo esilio, fu a Camino Monferrato, dove io andai a trovarlo ai suoi tardi anni.
Lì viveva fra i suoi gatti, in anfratti misteriosi e pieni di oggetti, non rilevanti per l'arte ma per la memoria di una vita interiormente avventurosa e piena di incontri e di persone indimenticate e indimenticabili, che riemergevano nella sua intatta memoria, in ponderosi fotolibri. Certamente l'importante iniziativa del Comune di Pinerolo, che dedica oggi in Palazzo Vittone una mostra a Enrico Colombotto Rosso, il genio visionario, con le appassionate cure di Lorenzo Soave e Daniela Dello Iacovo, cade in un momento propizio, non direttamente per il pittore, ma per la persona che gli è stata più artisticamente e umanamente vicina, cui tocca, in questi tempi, un'improvvisa fortuna: Leonor Fini.
Il nome di questa notevolissima artista triestina, amica della adolescenza dell'inossidabile Gillo Dorfles, critico di tutte le stagioni e autore del saggio pertinente, Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna, è sempre stato vivo e variamente ricordato, in una miscela di eccentricità, mondanità, vita parigina, divismo, nello stile di Valentina Cortese che ne è stata collezionista (le sue opere hanno avuto esiti altissimi in un'asta recente della grande attrice), in una mitologia surrealista di cui Colombotto era protagonista comprimario, e in una leggenda di stravaganza e di licenza, in un erotismo ambiguo, alla Pierre Molinier. È una storia ancora da scrivere nella quale, con Colombotto e Leonor, si muovono Fabrizio Clerici, Stanislao Lepri, Enrico d'Assia, Colette Rosselli, ed è anche una storia del costume, in cui entrano il ballo Beistegui a Palazzo Labia a Venezia, la moda, il cinema, Irene Brin, Gaspero del Corso.
Nessun dubbio che, negli anni Cinquanta, questi personaggi abbiano, al di là della loro impresa umana e artistica, anticipato esperienze fortunate nel mondo dell'avanguardia, come quelle di Marina Abramovic e Luigi Ontani. Altri tempi, altra fortuna; mentre Colombotto, Clerici, Lepri, Leonor Fini sprofondavano in una notte che non è finita. Ma i repertori e i libri fotografici, in atteggiamenti che avevano avuto la loro riconosciuta mitologia in Oscar Wilde, D'Annunzio, e, rispettivamente a Capri e Taormina, nel barone Fersen e nel barone Von Gloeden, raccontano la vocazione creativa dell'arte del corpo, che ha il suo teatro, per i meravigliosi Leonor e Colombotto, al profanato monastero di Nonza, in Corsica, sulla metà degli anni Cinquanta.
Da quell'oblio, fuori dal mondo del costume e dello snobismo internazionale, è uscita proprio ora Leonor Fini, non soltanto per ragioni artistiche, ma di genere, diventando prepotentemente protagonista a Parigi e a Venezia, alla Biennale e al Museo Guggenheim, dell'impresa di rilancio della creatività femminile, a fianco di Dorothea Tanning, di Leonora Carrington, e, per altre strade, di Carol Rama. Parallelamente a Milano Leonor Fini è proposta efficacemente in una rassegna monografica nella Galleria di Tommaso Calabro; e il Mart di Rovereto si accinge a dedicare una grande mostra al suo sodalizio umano e artistico con Fabrizio Clerici.
Colombotto Rosso e Lepri restano ancora nella penombra. Ma lo spiraglio di luce che la mostra di Pinerolo, così remota e così puntuale, apre, consola di una ripresa di interesse che era doverosa davanti all'inerzia di una critica abulica e distratta. E chissà ancora per quanto.
Colombotto era partito fra i giusti giovanili contrasti con maestri tanto diversi, come Felice Casorati che non lo volle all'Accademia Albertina, probabilmente per la sua radicale inclinazione al visionario, in una sorta di anacronistico neosimbolismo. Ne aveva coscienza Colombotto, scrivendo: «Tutto ciò che è tecnico l'ho imparato da solo. Ho cominciato a lavorare molto liberamente e credo di essermi salvato così da uno stile accademico... Credo che quelli che hanno accettato di diventare professori e maestri all'Accademia abbiano avuto un passo in meno a livello immaginativo, a livello di delirio, nel fare qualcosa oltre». Oltre, delirio: sono questi gli spazi in cui si muove Colombotto.
I suoi inizi sono promettenti e ben assistiti dal grande mercante d'arte torinese, Mario Tozzoli, che inizia con lui l'avventura memorabile della Galleria Galatea, aperta, in controtendenza, ad artisti solitari e straordinari come Bacon, Giacometti, Balthus. Il buio, per ironia della sorte, inizia proprio quando l'arte figurativa e colta riemerge a Venezia con la mostra di Balthus, voluta dal suo antagonista torinese Luigi Carluccio, nel 1980. Carluccio morirà l'anno successivo, ma Colombotto era già precipitato fuori degli orizzonti della critica.
Si interrompe, inspiegabilmente, la sua collaborazione con Dario Argento per il film Profondo Rosso, e Camino diventa il suo rifugio, dove appaiono demoni e mostri, fantasmi di anime perdute dagli abissi delle catacombe dei Cappuccini, frequentate a Palermo negli anni delle sue finzioni. Riemergono quei fantasmi in memorabili disegni, fino alla reincarnazione dell'Urlo di Munch, nei suoi tardissimi anni. La solitudine e il silenzio furono un destino annunciato nel suo andare oltre le soglie dell'umano, dai suoi esordi visionari negli anni Cinquanta, con un espressionismo dolente, fino alla serie di capolavori del decennio Sessanta/Settanta, dove Colombotto definisce un macabro lussuoso, in opere come La sposa, Macarena , il meraviglioso Scheletro con le pinne, Sogno, dove surclassa Leonor, La governante, Icona, Regina, tutti oggi nella sua gelosa Fondazione.
Veri, originali capolavori, dove si riaffaccia un Klimt del mondo dei morti, dei sopravvissuti, come in Freaks di Tod Browning. Di qui Colombotto precipita oltre le soglie del visibile, oltre il suo stesso «mondo stravolto», come lo definì Giovanni Testori.
Oggi, dopo la pittura lussuosa e lussuriosa che ho privilegiato, ne riconosco la grandezza anche nelle immagini evanescenti degli ultimi anni, nelle incredibili serie di disegni conservati nella Pinacoteca Civica di Palazzo Vittone. Mostri e capricci, gatti e Pinocchi fatti di rami secchi, come quelli che si vedono nella concomitante mostra Il re nero e oro delle favole eleganti e l'avventura Surfanta, a cura di Concetta Leto, nel Museo Alessandri di Giaveno. Nel suo precipitare Colombotto Rosso esce dai confini militari della critica ottusa, ma entra in quelli della dimensione assoluta e inattingibile di Hieronymus Bosch, di Egon Schiele, di Hans Bellmer, dannati come lui, e del mondo, evocato da Lorenzo Soave , de Il Corvo di Edgar Allan Poe: «scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo stupito, impaurito, sospettoso, sognando sogni che nessun mortale mai ha osato sognare».
Non posso che compiacermi di essere stato, nel tempo del più cupo silenzio e degli abissi, l'ultimo critico che si è occupato di Colombotto Rosso, dell'artista esiliato, ruminando gloriosi ricordi: «Il più visionario, il più turbinoso, disperatamente solitario, luciferino, è Enrico Colombotto Rosso, puro spiritualista, estraneo a ogni contaminazione con la realtà, in nome di un aristocratico distacco, in una pittura dell'anima nella
quale, come spiegava Bataille, c'è spazio anche per il male, per gli abissi dove l'uomo rischia di perdersi senza possibilità di riscatto».Colombotto Rosso è vissuto in un incontenibile delirio. Non potremo più dimenticarlo.
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