Il cinema che racconta le malattie si porta sempre via un pezzo di cuore. Accade anche con The Son che inquadra il male oscuro, quelle forme di depressione che si fatica a individuare e a capirne la provenienza. Non parliamo poi di ragioni e motivazioni. A soffrirne è un figlio che non accetta il divorzio dei genitori e, dopo un periodo con la madre, decide di trasferirsi a casa di papà che intanto ha avuto un secondo figlio da una nuova giovane moglie, con la quale il ragazzo va molto d'accordo. Sembra insomma che molti traumi vengano superati, ma le tenaglie della patologia stritolano il giovane, risucchiando nell'impotente dolore i due genitori, divisi ma rispettosi di un amore finito.
Il dramma tuttavia non sta nella trama, certo delicata e cupa, ma nell'impotenza e nell'impossibilità di chiunque fra gli attori - umani prima ancora che artisti della recitazione - a trovare il bandolo di una matassa irrisolvibile, perché incomprensibile. È questo il baratro in cui precipitano le speranze, abisso angoscioso in cui lo spettatore è messo faccia a faccia con la malattia. Una tecnica affatto casuale per il talentuoso regista francese Florian Zeller. E segnatevi il nome perché ne risentiremo abbondantemente parlare. Nel 2020 l'aveva già rodata con l'eccellente The father - Nulla è come sembra, dove era l'Alzheimer dell'anziano a finire nel mirino della macchina da presa.
Anche stavolta ne esce, come tre anni fa, un film di grande spessore e alto coinvolgimento emozionale con l'elemento d'unione costituito da Anthony Hopkins, là protagonista e qui in un cameo. La qualità non scade e il pubblico se ne accorge. Certi film restano. Nella memoria di chi li guarda e nel cuore di chi li porta con sé.
È il valore aggiunto di un cinema che emargina la banalità e mostra la faccia rude della malattia e la sofferenza di chi è costretto a gestirla, nella finzione esemplare ma tragica che rende ancora più terribile la comprensione di chi invece si confronta nella quotidiana realtà con quelle sciagure.
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