GIUSEPPE CONTE
All’università di Pavia, dove insegna inglese da anni, a Milano, ad Alassio dove si può veder passeggiare con il sigaro in bocca e la sua aria sorniona ed estatica, Tomaso Kemeny appare l’intellettuale e il poeta italiano autore di tanti volumi, pronto alla bizzarria e al paradosso, e insieme abitato come pochi dal demone della passione e del sublime. Ma sul lago Balaton, dove una volta abbiamo navigato insieme in quel paesaggio tutto orizzontale e come sbiadito dalle lontananze, ho scoperto che in lui esiste ancora, ben vivo, Kemény Tomas, l’ungherese, il discendente degli antichi nomadi che corsero razziando dall’Asia sino all’Europa, e giunti in quella regione che chiamiamo Transilvania si fermarono, diventando un popolo stanziale.
Ancora oggi Kemeny considera quella terra la terra dei propri ricordi ancestrali, l’origine di tutti i suoi sogni. Quando gli chiedo di come si divide tra l’Italia e l’Ungheria, comincia a raccontare. E il suo racconto si tinge potentemente di mito, a cominciare dalla vicenda del principe Almos, che vuol dire «Principe del Sogno», figlio di una principessa e di un’aquila, Turul, che l’aveva rapita e posseduta su un letto di nuvole, e che era alla guida degli ungheresi quando nel IX secolo decisero di dar fine al loro vagabondaggio.
Quello che portò in Italia Tomaso Kemeny ancora ragazzino fu la grande tragedia dell’Est europeo negli anni della Seconda guerra mondiale e in quelli che la seguirono. Il padre naturale morì combattendo per l’Asse sul fronte russo, dopo essere entrato in Transilvania da liberatore.
Il padre adottivo, invece, fu socialdemocratico e pacifista e durante la guerra conobbe il campo di concentramento. Il governo insediatosi dopo l’arrivo dell’Armata rossa gli offrì un posto che lui, con una presa di posizione coerente e coraggiosa, rifiutò. Così l’uomo che aveva conosciuto il campo di concentramento delle autorità ungheresi filofasciste, rischiò di conoscere quelli delle nuove autorità comuniste. Ma, avvertito in tempo, il Venerdì Santo del 1947 fuggì precipitosamente in Italia, aggregandosi come finto massaggiatore alla squadra di calcio. Il ragazzino Tomaso, di sette anni, si ritrovò in un campo profughi vicino a Napoli, cominciò a giocare con gli scugnizzi, vide il suo primo film italiano, Totò al giro d’Italia, si innamorò della nostra lingua. Oggi alla lingua italiana e alle sue radici dedica un omaggio superbo come La Transilvania liberata (Effige edizioni): poema onirico e epico, concepito dopo la scomparsa della madre, che vi appare trasfigurata in una antica dea transilvana ed è invocata in versi di struggimento altissimo, e posto sotto la tutela di numi come Tasso, Pound e Breton. Ma in cui riecheggiano anche il Petrarca dei Trionfi, e Dylan Thomas, la sua fede che «la morte non avrà dominio». Il poeta dà voce a tutti i popoli oppressi, e libera da ogni gabbia la propria immaginazione mitica.
Quando gli chiedo un ricordo di Pound, me lo descrive nel ’68 a Milano, quando fu organizzato un festeggiamento per il suo compleanno; arrivò e restò tutto il tempo muto e uscendo dalla sala mormorò: «Immer wieder», sempre e di nuovo, come monito definitivo.
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