«Tre anni d’inferno per prepararsi al trionfo del vuoto»

Lo scrittore austriaco Thomas Glavinic, autore di «Le invenzioni della notte», romanzo che descrive la vita da incubo dell’ultimo sopravvissuto sulla Terra, racconta ansie e fobie che lo hanno accompagnato nel suo lavoro

La situazione è inquietante, irritante, incredibile, impossibile. Ma una cosa è certa: l’unico uomo sulla terra, l’ultimo rimasto, non si annoia. Ne è sicuro il 34enne Thomas Glavinic. E per dimostrarlo - per mostrarlo, preferisce dire il prolifico austriaco, già autore di cinque romanzi - ci squaderna le quasi quattrocento pagine del tutt’altro che rassicurante Le invenzioni della notte (tradotto da Riccardo Cravero per Longanesi). Non c’è più nessuno. Non succede niente. Non importa neanche tanto registrare che siamo a Vienna tra inizio luglio e fine agosto di un’estate che potrebbe essere quella appena trascorsa, quella dell’anno scorso o di dieci anni fa. Eppure l’impulso di Jonas, assurdo protagonista - il personaggio non ha infatti un deuteragonista né un antagonista che gli faccia da spalla o che lo prenda alle spalle -, l’impulso dell’unico agonista è appunto agire. Si muove, si dà da fare, si mette al lavoro. Cerca qualcuno, scappa da qualcosa. Senza riflettere, senza pensare.
Com’è, chiediamo allo scrittore, che questa colossale epopea della solitudine umana è scritta come un romanzo di azione?
«Negli anni Sessanta e Settanta la letteratura germanica era tutta concentrata sull’interiorità. Si scrivevano romanzi esistenziali. Si rifletteva sulla condizione umana. Era una narrativa noiosissima. Libri poeticamente poco convincenti, filosoficamente presuntuosi. Volevo evitare questa trappola. Rinunciare all’introspezione a vantaggio della rappresentazione. La profondità dell’animo doveva venire in superficie e mostrarsi. Per metterla in luce avevo molte alternative. Il monologo. La descrizione. L’affermazione meditativa. Ma la più efficace era l’azione».
I primi segnali di quel che sta accadendo arrivano a Jonas dagli apparecchi tecnologici. Lo schermo è buio, il telefono è muto, Internet è staccata e il traffico fermo. La tecnica, colpevole o complice dell’umano isolamento, crea solitudine? Crea l’illusione di una compagnia?
«Non è un segreto che oggigiorno i contatti sociali sono sostituiti dai media. Pc, tv e telefono. Si parla sempre meno e si è sempre più soli. Ma in ciò la tecnica ha un ruolo subordinato. Nel romanzo non è causa della malattia ma il sintomo che la rende manifesta. È vero: non c’è connessione, telematica, telefonica, televisiva. Però c’è la corrente. Logicamente, dunque, il contatto sarebbe possibile. Evidentemente, invece, si intensifica così l’isolamento di Jonas».
Ma Jonas fa uso di strumenti tecnici. Filma ossessivamente con una videocamera quel che (non) accade. Di notte, punta l’obiettivo su se stesso mentre dorme...
«Ha paura, va in paranoia, come si può capire. Ha l’ansia di registrare cose che non può spiegarsi. Così filma le ore della notte in cui non è né vigile né sveglio. Come volesse sciogliere il tempo congelato, prendere il tempo di sorpresa per osservare quel che fa di noi a nostra insaputa».
Il gatto che si morde la coda. Impresa laboriosa. Di lavoro parla in effetti il titolo originale: Die Arbeit der Nacht. Perché Il lavoro della notte se tutte le condizioni lavorative - scambi, rapporti di produzione, valore del denaro - sono venute meno?
«Die Arbeit der Nacht è una metafora. Un enigma. Non è evidentemente inteso il lavoro sociale. È la notte che lavora. Nelle tenebre, dietro le gelosie, le finestre chiuse. Dietro le palpebre del dormente. E lavora su di lui».
E che lavoro per lei, Glavinic! Per forza di levare tutto quel che manca se non c’è nessuno: leggi, regole, economia, proprietà, risorse, bellezze. Tutti i sensi e il sense of humour... Esercizio di sottrazione?
«Un training durato tre anni: tanto ho impiegato a scrivere il romanzo. Alla fine, lo ammetto, davo sempre più segni di labilità psichica. Tutti i giorni entravo in quel mondo vuoto, non assieme a Jonas ma come fossi Jonas. Indossavo i suoi panni. Seduto alla tastiera avevo la sensazione che qualcuno mi spiasse di nascosto. Avvertivo rumori, fruscii. Avevo paura delle ombre, della mia ombra. Ho tirato fuori così paure tutte mie. Di tutti, forse: la paura di se stessi, dell’ignoto, della solitudine, della morte».
Tutto scompare, anzitutto il piacere. Jonas ha fame ma non ha voglia di mangiare. Trova un disco di Mozart e lo fa suonare a ripetizione come un allarme antifurto. Ha nostalgia della fidanzata, ma nessun desiderio erotico, né tentazioni autoerotiche. Né alcun frisson di fronte alla bambola gonfiabile vista in un magazzino, priva tra l’altro dei buchi messi al posto giusto.
«La bambola è una beffa. Non può scatenare le voglie di Jonas, solo la sua aggressività. Ma in generale niente tocca i suoi sensi e tutto gli dà sui nervi. Non c’è gratificazione possibile per lui: non c’è voglia, desiderio né piacere senza un altro. Non c’è Io senza un tu».
Ecco smontata la categoria filosofica dell’identità. Eppure Jonas si prende dannatamente sul serio. C’è una sola battuta di spirito in tutto il libro, la prima: «Buongiorno!», detto all’inizio del giorno peggiore della sua vita.
«Brutto scherzo, quella battuta. Jonas si alza di buonumore, entra in cucina e saluta le cose di casa. Presto vede che c’è poco da scherzare. E tutta la sua disavventura si consuma nel rapporto con le cose inanimate. Però questa smania di trovare un altro lo perseguita fino alla fine. Fosse pure quell’altro Jonas stesso: il suo io dormente, incosciente. Il sé incontrollato, temuto, nemico: creatura mostruosa nata dall’unione di Robinson Crusoe con Dr Jekyll e Mr Hyde. Con cui però non può lottare corpo a corpo».
Con l’Io crollano tutte le categorie fondamentali del pensiero: lo spazio...
«La natura è bella e impassibile, ma il mondo è morto. Jonas è a Vienna ma potrebbe essere ovunque. Attraversa confini di Stato nell’ansia di una meta, ma Germania e Inghilterra, non sono che nomi. E i nomi non sono che suoni senza senso».
Il tempo...
«Lo segna il calendario, la data di scadenza dei cibi in scatola, l’età di Jonas o di parenti e amici nei suoi sogni. Non so perché ho scelto di raccontare l’intervallo tra il 4 luglio e il 20 agosto. Né perché tutti quanti gli appaiano 35enni. Non ci sono arrivato con uno sforzo intellettuale, né chiedo questo sforzo al mio lettore. Parrà strano, a lui come a me, che il tempo sia così immobile e indifferente».
La libertà...
«È totale, assoluta e totalmente assurda per colui che può fare tutto - infrangere limiti, divieti, barriere remore di pudore - e di fatto è prigioniero: assediato dal vuoto».
Il significato. Jonas scrive il suo nome sui muri, grida aiuto, lancia sos, registra messaggi nelle segreterie. In tedesco e in inglese...
«E si accorge via via che le differenze tra le lingue non hanno senso. La lingua non ha più senso».
Né spiegazione si dà a chi assiste alla catastrofe. Una bomba? Un asteroide? Un incubo? Un principio di follia? Chiede Jonas all’inizio. Non risponderà. Ipotesi aperte che rendono Le invenzioni della notte un libro più realistico: verosimile?
«Veritiero, spererei. Non mi preme che il lettore cerchi una spiegazione, che conceda alla mia finzione qualche somiglianza con la realtà. È davanti a un’assurda verità che volevo portarlo. Senza contestualizzare, senza avere modelli.

Ho molto apprezzato che un mio collega austriaco, Rosendorfer, mi abbia scritto una lettera con un elenco di tutte le finzioni letterarie - favole, science fiction in cui si immaginano situazioni simili, fumetti racconti per ragazzi... - consigliandomi di non leggerle».

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