Tre metri sottoterra, i rifugi dorati dei boss

da Reggio Calabria

Se la ’ndrangheta avrà mai il suo Federico Moccia (Dio ce ne scampi), il best seller sarà Tre metri sotto terra invece che «Tre metri sopra il cielo». Siamo, appunto, a tre metri sottoterra ma si potrebbe pensare di essere in un’alcova, un pied-à-terre dove non manca niente. All’interno è fresco, per niente umido. Il cucinino è dotato di ogni genere di stoviglia. Il frigo, di solito traboccante, in questo caso ostenta soltanto una fila di bottiglie da stappare - non mancano mai nei bunker della ’ndrangheta - ma solo perché questo è un covo «freddo», cioè non utilizzato da alcuni mesi prima della sua scoperta. Una camera con quattro letti. Il bagno, con doccia. Luce e acqua.
Ci troviamo a Laureana, appena sopra la piana di Gioia Tauro. Siamo sotto il cortile di una rivendita di auto. Il più geniale resta comunque il rifugio vicino a Rosarno di Giuseppe Bellocco, uno dei ricercati più pericolosi, preso a luglio dopo 10 anni. È assolutamente invisibile. Sopra ci cresce rigoglioso un campo di melanzane. L’ingresso è in un dirupo scosceso tra i mandarini. La botola non la vedi neanche se ci finisci sopra con i piedi: è coperta dai rovi.
In un’area di quattro-cinque chilometri se ne possono trovare anche cinque o sei come questo. Il fatto è che ormai i bunker sono il vero status symbol del boss in Calabria. Se non ce li hai, non sei nessuno. Non permettono solo di sottrarsi agli «sbirri» e soprattutto ai clan rivali, di sparire nell’arco di pochi secondi e in una manciata di metri come Fregoli del gangsterismo, di continuare a gestire affari e regolamenti di conti nelle lunghe latitanze. Ma misurano caratura e consenso raggiunti dal padrino.
«Ce ne sono due tipologie: quelli ricavati da container sepolti sotto terra raggiungono l’ampiezza di 20-25 metri quadrati, quelli che invece si trovano all’interno delle abitazioni sono di solito locali di 2 metri per 3», dice il colonnello Antonio Alfio, fino a pochi giorni fa e per quattro anni comandante provinciale dei carabinieri a Reggio Calabria e ora spostato a Messina: «La realizzazione di un bunker costa circa 50mila euro». Richiedono maestranze specializzate, fornitori muti (anche sordi e ciechi). Quanto agli optional, «bè - fa un mezzo sorriso il colonnello - abbiamo trovato vasche con idromassaggio, sistemi tv a circuito chiuso e rifugi collegati a internet...».
Tra San Luca, il paese della faida straripata fino a Duisburg, e i centri ad altissima densità mafiosa della piana di Gioia Tauro, negli ultimi tre anni i carabinieri della provincia di Reggio Calabria ne hanno scoperti 25. Quanti ce ne siano ancora nascosti nelle pieghe di questo Stato creato dalla ’ndrangheta dentro lo Stato, nessuno lo sa. Di certo a decine. Non a caso dei 30 latitanti più ricercati 9 sono calabresi.
Spietati ma religiosissimi. Nei rifugi non manca mai una notevole quantità di simboli religiosi. Nell’ordine: Padre Pio, la Madonna di Polsi, cioè la Madonna dell’Aspromonte venerata nel santuario appena sopra San Luca, la Madonna delle Lacrime e l’Arcangelo Gabriele che ha molta importanza nei rituali di affiliazione. Ma attenzione, per capire geografia e modo di essere della ’ndrangheta bisogna concentrarsi sui particolari. Queste seconde case segrete per latitanti pluri-condannati e super-ricercati sono regolarmente allacciate alla rete elettrica e all’acquedotto. Come? Tramite cavi e tubi, spesso interrati per centinaia di metri, che si collegano ai contatori delle case vicine. Ogni bunker vede il coinvolgimento in media di almeno tre-quattro famiglie nelle immediate vicinanze, senza contare i vivandieri o i guardaspalle (armati) che coprono il boss in ogni spostamento.
Qui i latitanti possono incontrare in (relativa) tranquillità mogli, figli e fidanzate. La pulizia e l’ordine di questi nascondigli è curata da mani femminili. Eppure, nonostante i comfort, nonostante siano ricchissimi, la loro resta una vita da uomini-topo. Perché la fanno? «I bunker sono un presidio militare nel territorio», risponde Roberto Di Palma, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, uno dei magistrati più preparati e impegnato in questa strana guerra dal 1992: «Il boss non può allontanarsi. Qui gestisce i suoi affari, ma qui gode anche di una rete di protezione che non avrebbe in nessun’altra parte».
E allora, una piccola proposta.

I bunker sequestrati non siano distrutti o sigillati: perché non destinarli ad alcove pubbliche, per parchi dell’amore o altre lodevoli iniziative delle amministrazioni? Potrebbe essere l’antidoto contro la cultura di morte di cui la ’ndrangheta ha imbevuto ogni millimetro quadrato di questa regione, stupenda e dannata.
pierangelo.maurizio@alice.it

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