Tre narrazioni così mitiche da essere reali

Margareth Atwood, David Grossman e Viktor Pelevin rivisitano Penelope, Sansone e il Minotauro

Se una trentina d’anni fa qualcuno avesse predetto, o anche soltanto auspicato un fenomeno editoriale come questo, lo avrebbero preso per matto. Il fenomeno, né commerciale né scandalistico, ma prettamente culturale, consiste nel fatto che un grande editore inglese, coinvolgendone tantissimi altri in tutto il mondo, ha dato vita a una collana di volumi in cui gli antichi miti sono riletti, raccontati, interpretati da scrittori contemporanei, mostrandone la vitalità intrinseca e la persistenza nell’uomo d’oggi. Per l’Italia, l’editore coinvolto è Rizzoli, e i primi tre volumi della collana escono ora, dovuti a una autrice canadese, a uno israeliano e a uno russo. Il mito allora aveva diritto di cittadinanza soltanto negli studi di etnologia o di storia delle religioni. Asettico, disidratato, messo in formalina. Oppure poteva essere recuperato soltanto in una chiave parodistica, sarcastica, in una parola «demitizzante». Ma sostenere che gli antichi miti erano vivi, che parlavano ancora per noi, era considerato di una ingenuità o di una scorrettezza senza pari.
Cesare Pavese, che del mito aveva avuto un contrastato, terribile amore, era stato subito dimenticato, o fatto passare per un «realista». Trionfavano gli anti-romanzi, che, abolendo con rigore scientifico i personaggi e la trama, distruggevano ogni possibilità di mito, che ha sempre a che fare con la storia di un’anima, e con lo svolgersi di un destino. Oggi quella stagione è sepolta. Ma «mito» rimane un termine ambiguo. Forse novanta lettori su cento penseranno ancora oggi che un mito è qualcosa di falso e di irraggiungibile, o un modello di riuscita sociale divistica, un grande calciatore, una star del cinema. E pochi invece sanno che mito è una storia delle origini, un sapere primordiale, una costellazione di energie divine che si muovono ancora dentro la nostra realtà psichica e sociale. Che quando pronunciamo il nome degli antichi dèi ed eroi non parliamo di figure di cartapesta, ma di impulsi archetipi che agiscono in ogni atto della nostra esistenza. I tre libri appena usciti nella nuova collana sembrano improntati a questi principi. Da lì la loro importanza e la loro novità.
Chi legge per esempio il libro di Margareth Atwood intitolato Il canto di Penelope (pagg. 153, euro 13), capisce perfettamente come la figura della moglie di Ulisse rappresenti una costante del carattere femminile, e come sia ambigua e piena di ombre la sua vicenda. La scrittrice canadese, una grande intellettuale dall’opera complessa, che tocca anche la poesia e la saggistica, presta una memorabile, inconfondibile voce a Penelope. Sedentaria e in attesa, sembrerebbe il controcanto matriarcale di Odisseo, il viaggiatore inquieto: invece ne è il corrispettivo per astuzia e intelligenza. Il suo vero opposto è in fondo la cugina Elena, monumento di bellezza e frivolezza ed egoismo, responsabile di tante rovine. In quante donne che sanno aspettare il loro uomo vive ancora Penelope? E in quante che fanno del proprio fascino un’arma di guerra vive ancora Elena? I miti hanno sempre un lato di oscurità. In quello di Penelope raccontato dall’Odissea c’è la condanna e la morte per impiccagione delle sue dodici ancelle. La Atwood, ossessionata da quella condanna, fa delle dodici ancelle un coro che interviene nella storia, con toni da tragedia ma ora anche da commedia e da musical. Il mito regge questa polifonia.
Nel libro di David Grossman Il miele e il leone (pagg. 148, euro 13) al centro dell’attenzione c’è il mito di Sansone. Il procedimento è tutto diverso. Lo scrittore israeliano non si identifica nel suo eroe. Prende il racconto biblico, contenuto nel libro dei Giudici, e ne fa una parafrasi e analisi straordinaria per penetrazione. Sansone è un eroe la cui forza è passata in proverbio. Ma è anche un uomo solo, sconcertato dalla propria eccezionalità, incerto del suo essere, attratto dall’altro. Il suo nome deriva dall’ebraico shemesh, che vuol dire «sole». Sappiamo così che è fratello di tutti gli eroi solari che incontriamo nelle diverse mitologie, tutti muniti di forza sovrumana e tutti vulnerabili in un solo punto: Achille, Sigfrido, Krishna. Ma nello stesso tempo è l’eroe per eccellenza degli ebrei e dell’attuale Israele, che chiamò «le volpi di Sansone» le unità speciali del suo esercito nel 1948 e «Opzione Sansone» il suo programma di armamento nucleare. Ma, colmo dell’ambiguità, Sansone è anche il primo kamikaze della storia, con la sua ansia suicida di vendetta e di distruzione.
Il libro di Viktor Pelevin, L’elmo del terrore (pagg. 189, euro 13), è dedicato al mito del Minotauro ed è il più inquietante. Con un procedimento che chiamare «mitomodernistico» non sarebbe improprio, l’autore russo colloca il mito del Minotauro in una specie di cyber-spazio, una realtà virtuale da incubo. In essa, muovendo da una frase con cui una Ariadna, che lascia trapelare in sé la Arianna figlia di Minosse, sorellastra del Minotauro, dà avvio a una chat, man mano si introducono personaggi in cerca di una via di uscita da un labirinto dove si può trovare la morte o il riscatto.

È il più ambizioso e virtuosistico dei tre racconti, affascinante ma spesso oscuro. E che del mito si possa scrivere con tanta differenza di modi è segno della sua potenza inesauribile. Inesauribile come il desiderio che ha l’uomo di conoscere e di raccontare.

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