Nell’Iraq del dopo Saddam la guerra vera incominciò quando Bush dichiarò il missione compiuta. In Libia David Cameron e Nicolas Sarkozy corrono lo stesso rischio. Arrivati entrambi a Tripoli celebrano insieme la vittoria di quell’armata ribelle di cui si senton mentori ed ispiratori. Sarkozy si spinge anche più là. «Vi aiuteremo - promette alla folla - a catturare Gheddafi». Ma rischiano grosso, tra non molto potrebbero scoprire d’aver puntato su un cavallo zoppo. Su un alleato destinato a far i conti con la prepotente rinascita dei Fratelli Musulmani. I segnali sono nell’aria. E non solo in Libia. Mentre a Tripoli i gruppi islamici rivendicano il potere in Egitto la primavera araba rivela tendenze assai poco pacifiche. Tendenze ispirate da un pensiero che ha sempre sostenuto la necessità di rivedere la pace con Israele. A rilanciare la tesi - capace di riportare la storia indietro di 40 anni e riaccendere le guerre con lo Stato ebraico - è il primo ministro egiziano Essam Sharaf. «L’accordo di Camp David non è una cosa intoccabile, può sempre essere oggetto di discussione, in un’ottica di beneficio per la regione e di una pace giusta possiamo se necessario apportarvi cambiamenti», dichiara il premier in un’intervista alla televisione turca. La presa di posizione - per quanto pronunciata da un politico che non ha mai nascosto la sua avversione nei confronti degli accordi di Camp David - risente anche della crescente influenza esercitata dalla Fratellanza Musulmana, la formazione islamista uscita egemone dal dopo Mubarak.
In Libia lo scenario non è molto diverso. A lanciar la sfida, proprio alla vigilia dell’arrivo di Sarkozy e Cameron, ci pensa il predicatore fondamentalista Alì Salabi denunciando il «secolarismo» del premier ad interim Mahmoud Jibril e accusandolo di voler imporre «una nuova era di tirannia e dittatura». Appoggiato dal Qatar dove fuggì dopo lunghi anni nelle galere di Tripoli, Al Salabi è anche lui un’esponente di rango della Fratellanza Musulmana libica. Uno dei suoi più stretti alleati in quei circoli è Yusuf al-Qaradawi, il predicatore che incoraggiava i kamikaze palestinesi dalle antenne di al Jazeera. Ma lo sceicco è anche fratello di militanza e prigionia di Abdel Hakim Belhaj, l’ex comandante qaidista libico nominato capo del Consiglio Militare di Tripoli. Nel 2005 fu proprio il figlio di Gheddafi Saif Al Islam a rivolgersi a Salabi per siglare l’accordo che portò allo scioglimento delle cellule qaidiste del Gruppo Libico Combattente e alla liberazione di Belhaj. Ma ora che Gheddafi non c’è più la Fratellanza Musulmana è pronta a rialzar la testa. In Libia, come in Egitto e in Tunisia, l’organizzazione ha sfruttato la rete di moschee e gruppi di carità per mantenere - nonostante i 42 anni di dittatura - legami e strutture clandestine. Oggi è l’unico vero partito, l’unico gruppo organizzato. In Libia i suoi militanti sono gli animatori di Etilaf, l’organizzazione che coordina le fazioni islamiste, inneggia a jihad e sharia e professa, in privato, tesi vicine a quelle salafite. Fathi Ben Issa, un esponente del consiglio di Tripoli fuoriuscito da poco da Etilaf ed intervistato dal New York Times, rivela che i suoi ex compagni di partito «sono come i talebani», sognano di mettere al bando teatri e cinema e hanno allo studio una fatwa per vietare alle donne di guidare. La deriva fondamentalista rischia di aver conseguenze anche sugli affari di Londra e Parigi. Per quanto Cameron e Sarkozy neghino di essersi mossi per portar a casa contratti e affari un violento regolamento di conti tra i fondamentalisti e gli esponenti laici del Consiglio di Transizione trascinerebbe il Paese in una nuova guerra civile. E garantirebbe una posizione ancor più rilevante al Qatar ispiratore di tutta la primavera araba - grazie alle antenne di Al Jazeera - e grande protettore di Salabi e di tutti gli altri fuoriusciti legati alla Fratellanza.
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