Con un racconto di raro nitore, Il Premio Nobel, Ferruccio Parazzoli fa a pezzi il trito sistema delle terze pagine, dileggia l'inconsistenza della critica letteraria, prende in giro se stesso. Il racconto è narrato in prima persona. Uno scrittore ottantaquattrenne Parazzoli compirà 89 anni il prossimo 26 agosto prende il caffè con la moglie, Alina, «squilla il telefono e una voce cortese con accento straniero mi comunica che l'Accademia reale di Svezia mi ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura». Segue pio sbigottimento: per festeggiare, lo scrittore prega la moglie «di versarmi due dita di cognac»; lei incassa la notizia «con la consueta apparente indifferenza». Soltanto dopo un po' - quando telefona il figlio, Andrea - lo scrittore finge una specie di felicità. Mi viene in mente William Golding. Noto per lo più per Il Signore delle Mosche, ottenne il Nobel nel 1983, a 72 anni. Sul diario intimo - tirato fuori di recente dalla William Golding Limited - appunta: «6 ottobre 1983. All'una e cinque la notizia è passata alla radio e alla tivù: ho vinto il Nobel. Il telefono ha squillato per tutto il giorno. Ho preferito andare a cavallo». Come a dire, lo scrittore - se è tale - è sempre altrove.
Anche lo scrittore del racconto di Parazzoli pare stranito: i suoi libri, ormai, sono «accolti con deferenza dai giornali, ignorati dai programmi televisivi, di limitata circolazione nelle librerie». Le interviste concesse al Corriere della Sera e al «titolare del supplemento letterario di Repubblica» mettono in mostra la ridicolaggine dell'attuale sistema culturale italico (finanche l'inutilità della recensione che state leggendo). Come lo scrittore de Il Premio Nobel, anche Ferruccio Parazzoli è autore di una «sterminata opera», forse eccessiva. Alcuni dicono che il suo romanzo migliore resta Il giro del mondo (1977), io ho preferito Il grande peccatore (2019). Questa raccolta di racconti, Tutte le luci accese (Bompiani) ha titoli che ricordano Hemingway e Carver (ad esempio: Cosa ti inventerai, oggi, ragazza mia?; Nolo. Uno stupido racconto; Tutta la tenerezza del buio; Elefanti bianchi) e un ritmo americano, tutto di trame tonanti e chiusure lampo, senza lampeggianti metafisici o deformità nel linguaggio. Tra tutti, il racconto più bello s'intitola Ma Cechov si faceva le marmellate?. La storia non ve la dico, vi dico però che c'è una bambina in fiamme e che quella bambina ricorre anche in altri racconti. Anche la serie Go marching in è bella: una processione di santi moderni, miniati da quotidiane follie.
Per trarre una poetica da questi testi bisogna tornare però a Il Premio Nobel. Lo scrittore intende centrare il discorso di accettazione del Nobel su un tema che lo tormenta da anni: lo Spazio Bianco. «Oltre i segni delle lettere... c'è lo Spazio Bianco sterminato, senza confine che li accoglie come l'aria accoglie il ronzio degli insetti». Lo Spazio Bianco è il silenzio che soggiace e giustifica la scrittura. Sembra di leggere quel passo del Talmud in cui si dice che «la Torah che il Signore diede a Mosè fu data come fuoco bianco inciso con fuoco nero».
Il libro è fuoco, crepita, scalpita; le lettere sono necessarie quanto il bianco in cui galleggiano. Mentre lo scrittore s'immerge in questi insondabili misteri, i parenti si occupano del viaggio in Svezia. La moglie resterà a casa. L'arte mal si adatta ai cerimoniali.
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