Nel corso degli anni si è trascurato il rapporto organico che le università dovrebbero avere con la realtà economica del Paese. Una trascuratezza non dovuta a miopia legislativa, ma a una visione coerente con quell’idea di Accademia che nasceva dalla legge di Giovanni Gentile degli inizi del secolo scorso, e che più o meno esplicitamente ha sempre regolato il funzionamento delle università statali.
Queste avevano il compito istituzionale di formare l’élite culturale che sarebbe diventata classe dirigente del Paese. Una tale visione delle università non richiedeva un’apertura organica alla vita economica della società, semmai erano le imprese che dovevano accogliere le conoscenze della ricerca scientifica svolta nelle accademie. Un caso emblematico è stato il celebre istituto di fisica in cui lavorava, tra i più celebri scienziati. Enrico Fermi. Insomma, l’università intesa come «torre d’avorio» più o meno isolata dal contesto economico imprenditoriale della società italiana.
È trascorso del tempo dalla legge Gentile, ma pur con le più diverse riforme che hanno modificato l’università, l’idea di ateneo come «torre d’avorio» non è cambiata di molto. Si osservi come uno dei temi che hanno caratterizzato la contestazione alla legge Gelmini, fosse proprio la garanzia di autonomia della gestione delle università da ingerenze di privati. La riforma infatti prevede che i consigli di amministrazione degli atenei debbano avere consiglieri esterni. Queste presenze venivano considerate dai contestatori un’inaccettabile interferenza nella vita universitaria, non invece un miglioramento delle sue potenzialità di ricerca.
Non c’è da stupirsi se oggi le università private aumentino le iscrizioni. Non è soltanto una questione di efficienza, di rispetto delle professionalità e del merito: il motivo per cui si preferisce il privato dipende dal fatto che università come la Bocconi, la Luiss, il San Raffaele hanno con l’economia della nostra società un rapporto organico. Questo significa sviluppare una ricerca che non è autoreferenziale. L’ingresso dei giovani è molto più probabile studiando in un ateneo che si dà come missione quella di interagire con la realtà economica, piuttosto che in un ateneo che presume di preparare una classe dirigente astratta dalle esigenze del Paese.
C’è anche da sottolineare un altro aspetto importante nella visione proprio degli atenei privati. La loro apertura al mercato (di idee, non solo economico) favorisce l’ingresso di capitali privati. Di conseguenza, l’ateneo non solo risolve più agevolmente i propri problemi di gestione finanziaria, ma i suoi laureati sono tenuti sotto la lente di ingrandimento delle imprese stesse, che hanno ovviamente ogni interesse ad inserire nel lavoro quei giovani meritevoli che hanno studiato, rispettando certi livelli di qualità della ricerca.
In questa circostanza è chiaro come la meritocrazia, che oggi sembra essere la soluzione di ogni problema universitario, non viene risolta astrattamente, ma in un rapporto tra studio, impresa che partecipa alla gestione dell’università e qualificazione professionale del giovane. Infine va ricordato che se nell’ateneo privato lo studente non rovinato da assurdi ideologismi coglie immediatamente le opportunità lavorative per il suo futuro, l’iscrizione ai corsi è cara, spesso molto cara.
Ciò significa che se le università statali non si adegueranno in fretta agli standard culturali di quelle private, noi avremo un’istruzione accademica classista: chi ha soldi studierà bene e troverà lavoro, gli altri verranno ingiustamente penalizzati.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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