«Va a onges», perfido augurio a chi è cattivo come la peste

La «lengua milanesa» sdrammatizza anche l’epidemia che colpì la città. Ancora oggi un ammalato, se continua a starnutire, riceve uno schietto «S’ciòppa», «scoppia»

Giorgio Caprotti

Se è chiaro quel Te seet cattiv come la pèsta, che volevano dire il Va a onges! e altri? L'episodio della recente restaurazione dell'abbattimento della casa dove dimorava e aveva negozio di barbiere quel poveraccio di Gian Giacomo Mora, massacrato con la falsa nomea di appestatore, nasconde in realtà non poche perplessità. Ad esempio solo pochi sanno che quella casa sacrificata con lui non era di sua proprietà ma di altri che, considerata l'imbarazzante e rischiosa situazione, si guardarono bene dal richiederne il risarcimento. Lo stesso Lodovico Settala, il quasi ottuagenario protofisico che diagnosticò la peste nel territorio di Lecco al confine col bergamasco, non fu creduto ma anche minacciato di morte, e Alessandro Tadino, il medico che fu il magnifico coordinatore dei soccorsi nella pestilenza manzoniana a Milano, fu in grado di rilasciarci il suo prezioso Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica e malefica seguita nella città di Milano e suo ducato dall'anno 1629 fino all'anno 1632 solo nel 1648, riferendo nelle prime righe come solo allora si sentisse di non rischiare la vita, tanto ci furono efferate «cacce alle streghe», quasi per sottrarsi alle proprie colpe di gretta ignoranza. Ma la parlata milanese, la lengua milanesa, è sdrammatizzante, pur se inzuppata di filosofica saggezza.
Così nacquero detti di riferimento che, se sopravvivono, ormai sono usati sovente a sproposito. Prendiamo quel definire qualcuno, per il suo perfido comportamento, come il Te seet cattiv come la pèsta. Ebbene, c'è persino un tipo di peste che non è poi così fatale come le altre due modalità: si tratta della cosiddetta peste minor, quella da cui dovrebbe essersela cavata anche il Renzo manzoniano che ne guarì in un baleno.
Sempre severo invece è il macabro augurio del Va a onges!. Ma che vuol significare? Semplicemente il suggerimento di un «Ma va un po' a farti ungere dall'untore», così da prenderti una bella peste, di quelle due varietà così facilmente fatali. Come la peste bubbonica che fece strage nei Promessi Sposi, se non piuttosto di quella manifestazione polmonare che esordisce, dopo un paio di giorni di incubazione, con un raffreddore acuto e la tosse con escreato, il cui quadro clinico può concludersi con fulminante fatalità in pochi giorni.
Nozioni note sin da quel tempo, lontano di secoli, ma di cui se ne è persa la memoria, da cui nacque il detto, il più sovente frainteso del Quand stranuda l'amalaa, cascel via de l'ospedaa. Frainteso dai più perché si crede che lo starnuto sia la liberazione da una malattia, a parte la sottigliezza meneghina di quello stranuda assai più assimilabile all'erompente espirazione dal naso dopo la trattenuta inspirazione polmonare che non lo «starnuto» in italiano. Ebbene l'espressione è in realtà tutto l'opposto del benessere perché esprimerebbe i primi sintomi di una peste polmonare incipiente, da scacciare dall'ospedale perchè potrebbe scatenare un'epidemia.

Tanto che si usa indirizzare al malcapitato, allontanandolo, un chiaro e forte augurio di cavarsela, col «Salute! Salve!». E, se gli starnuti si susseguissero, non siamo proprio noi a scansarcene, magari borbottando in buon meneghino schietto un bel sonoro S'ciòppa!, «scoppia, e che sia finita»?

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