Il generale Caviglia, esecutore degli ordini del governo di Giolitti, cominciò il 28 novembre con l'intimare al Comandante lo sgombero delle isole di Veglia e di Arbe che D'Annunzio aveva fatto occupare da nuclei di bersaglieri e di fiamme nere. D'Annunzio rispose: «Non riconosco la sua autorità. Terrò le isole. Aspetto ch'Ella mandi la sua gente a cacciare i legionari. La sua gente sarà ben ricevuta». Il 21 dicembre il generale Caviglia inviò un ultimatum. Nel proclama ai legionari, D'Annunzio rispose additando il dovere della disobbedienza: «Io, miei compagni, pongo per pegno della mia e della vostra disobbedienza contro i venditori e i traditori di Roma, la mia vita tutt'intera dovuta alla più bella Causa che mai sia stata data all'uomo per la gioia e per la gloria di ben morire». Nella sera del Divino Messaggio cristiano, D'Annunzio si rivolse ancora agli italiani: «Il delitto è consumato. La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno. Sul far della sera, all'improvviso, le truppe regie in numero soverchiante hanno attaccato i legionari di Fiume, i quali, per evitare ogni provocazione, avevano ristretto la loro linea di difesa e avevano mandato ai fratelli quel saluto cristiano che nella notte di Natale usavano scambiarsi le nostre trincee e le trincee austriache!... Nella notte trasportiamo sulle barelle i nostri feriti e i nostri morti Il popolo eroico, contro l'orrenda aggressione, dà un esempio mirabile È tutto in piedi. Accorre alle barricate. I vecchi, le donne, i giovinetti si armano».
L'atto più ignobile e sciagurato in questa tristissima vicenda fu il tentativo fatto, col bombardamento del palazzo, di uccidere il comandante. Alle 15,15 del giorno 16, una cannonata della nave Andrea Doria prese di mira e colpì esattamente la stanza dove D'Annunzio era al tavolo di lavoro con alcuni ufficiali. Il comandante fu soltanto leggermente ferito. Ma il giorno 28, quando dimostratosi impossibile il disegno di prendere Fiume con le fanterie, il generale Ferrario ordinò per l'indomani il bombardamento della città col concorso delle batterie pesanti già avvicinate al fronte di combattimento e delle batterie da 305 della Regia Marina, l'epopea fiumana poteva considerarsi finita. Il Comandante non si sentì di imporre alla città eroica la rovina totale «che il governo di Roma e il comando di Trieste le minacciavano» e quindi rassegnò le sue dimissioni e quelle del Collegio dei Rettori della Reggenza a un Consiglio di guerra, il quale deliberò di «cedere alla minaccia di distruzione della città e della popolazione civile non combattente e di subire in massima l'imposizione del trattato di Rapallo». Gabriele D'Annunzio era giunto agli estremi limiti dell'eroismo, oltre i quali ogni incertezza sarebbe caduta nel regno del disumano.
Nella sua strenua lotta contro il Governo di Roma, egli forse aveva sperato che questo non sarebbe mai giunto a rivolgere le sue armi contro la città martire; e certamente egli fece di tutto per evitare il conflitto fratricida.
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