
Anche per la Chiesa la sconfitta del comunismo segna un prima e un dopo. Non solo perché di quel crollo, grazie a Karol Wojtyla, essa è stata protagonista assoluta. E nemmeno perché la sua influenza politica, da quel momento, è diminuita. Cambia, allora, il suo grande nemico. Diviene il processo di secolarizzazione. Che accelera a ritmo inimmaginabile, minacciando di relativizzarne il senso. Come confrontarsi con quel processo che appare progressivo e irrefrenabile: questo è il dilemma. Proponendosi come alternativa integrale? Attraverso un confronto critico con il «mondo»? Ovvero provando a entrare nel fenomeno per conquistarlo dall'interno?
Giovanni Paolo II sperò che la vittoria sulla più grande religione civile che la storia dell'umanità abbia mai prodotto potesse provocare un ritorno di spiritualità. Ci contava, innanzitutto per il Vecchio Continente. Ma il suo immenso carisma riuscì solo ad arginare la crisi. Non produsse un'inversione di tendenza. Lo testimonia la seconda fase del suo papato, drammatica e sofferta. La malattia fece il resto, provocando nella Chiesa una crisi di governabilità che non poco deve aver pesato sulle dimissioni del successore. Joseph Ratzinger, per quanto concerne la dottrina, al pontificato di Giovanni Paolo II aveva garantito la struttura. Non gli sfuggirono, proprio per questo, gli esiti di quell'esperienza comune. Anche per ciò - oltre che per personali attitudini- una volta eletto al soglio, invece che sul carisma puntò sulle minoranze creative. Su un tentativo di riconquista che sarebbe dovuto partire dal basso. Provando a riconnettere fede e ragione. Tentando un'inedita alleanza tra pensieri forti, contro il relativismo esito ultimo della secolarizzazione imperante.
Giovanni Paolo e Benedetto, dunque, ognuno per la sua strada, sono partiti dal centro, inteso in senso geografico ma ancor più spirituale. Da lì hanno provato a raggiungere la più remota periferia dell'animo umano, con un messaggio di fede più forte della durezza dei tempi. La via di Francesco è stata diversa. Così come differenti sono state le periferie che lui ha privilegiato. Il confronto con il predecessore è in ciò eloquente. Laddove Benedetto è stato logos, Francesco è stato pathos. Laddove Benedetto è apparso «elitario», Francesco è stato «populista». Laddove Benedetto ha occupato la stanza dei libri lasciando troppo sguarnita quella del governo, il suo successore ha fatto la scelta inversa. Al punto che, per chi crede, nel decennio d'inedita coabitazione tra i due può persino rinvenirsi qualcosa di provvidenziale. Qualcosa che ha aiutato la Chiesa a «tenere». Ma non a risolverne i problemi né a ridarle coesione e unità.
Questa, nei termini essenziali, è la «questione» che ha attraversato gli ultimi tre pontificati. Ad essa, prima che a ogni altra, sono chiamati a rispondere i cardinali che tra qualche giorno si chiuderanno in Conclave. La squassante contrapposizione tra le immagini delle masse accorse alle esequie con quella di due uomini fotografati nella loro umana solitudine, piccoli di fronte alla grandezza del templio cristiano, è la metafora di ciò di che si deve tenere insieme. Così come c'è un'altra immagine d'archivio, non meno felicemente contraddittoria, che indica dove si colloca il centro del problema. È quella del Papa del popolo, coerente nel suo cammino fino all'ultimo giorno di vita terrena, che nei grigi di una giornata piovosa recita messa, solo di fronte al mistero della morte portata da una inimmaginabile pandemia che ha scoperto l'effimera potenza dell'uomo moderno.
Queste immagini ci dicono che la partita non è chiusa. Tra il mondo e la fede c'è ancora la possibilità di una conciliazione, che non sia compromesso ma scelta forte. Serve alla Chiesa. Ancor di più serve al secolo, che non è riuscito a dimostrare di bastare a sé stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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