"Le sfuriate di Giussani che ha salvato tante vite"

Il vescovo, Massimo Camisasca, a 20 anni dalla morte dell'anima di CI. "Era contro le follie rivoluzionarie e borghesi"

"Le sfuriate di Giussani che ha salvato tante vite"

È il 22 febbraio del 2005 quando don Luigi Giussani, nato a Desio il 15 ottobre del 1922, muore nella sua abitazione di Milano. I funerali sono celebrati in Duomo dal futuro Benedetto XVI, il cardinale Joseph Ratzinger, inviato dell'allora pontefice Giovanni Paolo II. Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia e fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, il «ramo sacerdotale» di Comunione e liberazione, ha vissuto a lungo a fianco di don Giussani e ha molto scritto di lui: il primo riferimento da cui partire è senza dubbio Introduzione a don Giussani (edizioni San Paolo, luglio 2024), l'ultimo suo libro dedicato al fondatore di Cl, nel quale ne esplora la vita e il pensiero teologico, il campo forse meno conosciuto..

Il 9 maggio del 2024 nella basilica di Sant'Ambrogio a Milano, è iniziato ufficialmente il processo di beatificazione di monsignor Luigi Giussani, per tutti don Giussani. Senza voler anticipare nulla, lei che l'ha conosciuto da vicino, pensava di vivere accanto a un santo?

«Ho vissuto probabilmente accanto a molti santi, ciascuno con un proprio profilo particolare. Penso a san Giovanni Paolo II, a santa Teresa di Calcutta, penso naturalmente ad alcuni per cui è in corso il processo di beatificazione: Enzo Piccinini, Andrea Aziani, eccetera. Ma con nessuno ho avuto una consuetudine così lunga come con don Giussani: definirei la sua santità una passione sconfinata per Cristo e per gli uomini. Egli è stato un ponte tra un'infinità di giovani e la salvezza della loro vita. Li ha fatti incontrare con Cristo togliendo la loro esistenza dal vuoto, dalla banalità o dalla disperazione».

Sono trascorsi vent'anni dalla sua morte. Quali sono le caratteristiche del temperamento che si notavano di più in lui? Che cosa le manca di più?

«Don Giussani era un uomo polimorfo, dotato di un pensiero profondo e articolato, ma anche di una capacità espressiva molto ricca, ora seria ora divertita ora provocatoria ora pensosa. Ricordo di lui soprattutto la profondità e la passione della sua parola, la sua forza aggregatrice, la sua capacità di aprirci orizzonti sempre nuovi.

Ricordo anche alcune sue terribili sfuriate, di cui presto si dimenticava. Stare con lui era incontrare ciò che è eccezionale in una vita fatta di eventi quotidiani».

Don Giussani è stato molto amato dai suoi ma anche molto avversato. Ci può dire qualcosa del 1965, il suo annus horribilis, e della sua depressione?

«Il 1965 come ho mostrato nel mio libro è stato effettivamente per Giussani un anno molto duro. Mentre la sua Gioventù Studentesca veniva riconosciuta dalla chiesa ambrosiana, egli ne era allontanato. Ha così dovuto successivamente riscoprire la maternità della Chiesa attraverso la vicinanza con san Giovanni Paolo II».

Giussani ha anche sofferto di una pleurite molto pesante e del Parkinson alla fine della vita. La malattia l'ha condizionato?

«La malattia ha accompagnato tutta la sua vita. Egli ne parlava pochissimo e soltanto alle persone a lui più strettamente vicine. Ha saputo portare ogni male con semplicità, attraversandolo con la passione creativa e l'obbedienza a Cristo. Gli ultimi anni di vita, a causa del Parkinson, furono particolarmente dolorosi, lo isolarono dal movimento, gli chiesero il sacrificio della comunicazione e gli permisero di offrire la sua vita come un'offerta purificata».

Ci racconta il passaggio dalla cattedra di teologia del seminario di Venegono ai banchi del liceo Berchet? E poi l'ulteriore salto alla Cattolica?

«Giussani aveva davanti a sé una sicura carriera di teologo nelle facoltà e nei seminari. Scelse però di studiare teologia in un modo differente, a contatto con i ragazzi, vivendo con loro l'esperienza della Chiesa nel suo nascere e nel suo crescere, parlando di Cristo e del centuplo che Egli donava a chi lo seguiva. Io l'ho avuto come insegnante di religione al Berchet e le sue parole sono state decisive per il cambiamento radicale della mia esistenza. In Cattolica ha parlato a migliaia e migliaia di giovani, salvando intere generazioni dalla follia rivoluzionaria o dal non senso borghese».

Nel 1970 don Giussani scrisse al cardinale Colombo: «Mi permetta di dirle che non ho mai inteso fare chiesa nella Chiesa, né tentato di organizzare

strutture in tal senso». È una delle accuse più diffuse rivolta a Cl e al suo fondatore. Le preoccupazioni degli arcivescovi Montini e Colombo e di altri prelati ambrosiani secondo lei hanno avuto qualche aggancio nella realtà?

«Il nuovo, già alla sua nascita, assieme a gioia provoca sempre un po' di disagio e anche di dolore. Là dove non si entra con simpatia a cercare di comprendere l'opera di un altro si possono trovare mille ragioni obiettive per criticarla o rifiutarla. In realtà, Montini prima come arcivescovo e poi come papa apprezzò molto l'opera di don Giussani e gli disse due volte: Vada avanti così. Giovanni Colombo stimava tantissimo Giussani come uno dei suoi figli prediletti. Non concepiva però quello che poi Giovanni Paolo II avrebbe sottolineato: l'idea di movimento».

E le incomprensioni con il cardinal Martini?

«Con il cardinal Martini la questione fu diversa: Giussani e Martini provenivano da esperienze educative molto differenti, come può essere differente un vero torinese e un vero milanese, avevano visioni ecclesiali con sottolineature lontane. Non si incontrarono e quando si incontrarono non si capirono».

Che cosa ha cambiato la presenza di don Giussani nella storia della Chiesa ambrosiana? E nella vita dei sacerdoti?

«Egli ha mostrato che la Tradizione non consiste in un ossequio a riti, regole o usanze, ma nella fecondità sempre nuova della Chiesa di Cristo. Essa sa esprimere in forme non scontate la permanente origine, che è la vita del Salvatore.

Don Giussani era un autentico prete milanese, attento alla concretezza della vita e fiero del popolo a cui apparteneva. È riuscito a dare a questa particolarità un valore universale, tanto che il suo movimento ha attecchito in tanti paesi del mondo».

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