"La vedova nera" si annida nella pigra Roma anni Sessanta

Giuseppe Del Ninno porta il lettore attraverso un'indagine che fa rivivere trame, intrighi e indolenze della Capitale

"La vedova nera" si annida nella pigra Roma anni Sessanta

Antefatto. Una ventina d'anni fa, un racconto di Giuseppe Del Ninno vinse il premio Giallo-Estate indetto dal Giallo Mondadori e assegnato da una giuria presieduta da Laura Grimaldi, ovvero la Cassazione in materia. Il racconto si chiamava La vedova e più tardi si trasformò in un romanzo che, quando lo lessi, ancora fresco di dattiloscritto, mi appassionò.

Per quanto anche allora scrivessi libri, avevo una scarsa dimestichezza con l'industria editoriale in genere, e in particolare con quella che ha a che fare con la narrativa italiana contemporanea di cui, fatte le doverose eccezioni che confermano la regola, avevo e ho pochissima considerazione: ombelicale e sciatta, per dirla in breve.

L'unico che conoscessi nel settore, per motivi che esulavano dal settore stesso, non era tuttavia un personaggio secondario: si chiamava Raffaele Crovi, era stato da giovane un protégé di Elio Vittorini e poi si era rivelato romanziere in proprio, nonché un brillante manager editoriale. Alla metà degli anni Ottanta, fra mille altre consulenze e incarichi, Crovi aveva messo su una sua casa editrice, Camunia si chiamava, che da semplice lettore avevo particolarmente apprezzato perché capace di andare controcorrente, tanto da avere in catalogo Massimo Fini, Franco Cardini e Piero Buscaroli... Inoltre, Crovi era stato uno dei pochi a mantenere rapporti di stima e di amicizia con Alfredo Cattabiani dopo l'uscita di quest'ultimo dalla Rusconi Libri e il limbo, meglio, il purgatorio editoriale in cui ignobilmente era stato relegato, e se c'è una cosa che apprezzo è il restare solidali con chi è caduto in disgrazia.

Proprio Cattabiani, che negli anni Novanta aveva iniziato a collaborare alle pagine culturali del Giornale, aveva fatto da tramite al mio primo incontro con Crovi, il quale, avendo saputo di un mio pamphlet sulla destra appena scritto, voleva avermi, mi disse, «nella sua scuderia». Non se ne fece nulla, perché preferii firmare il contratto con un'altra casa editrice, ma non se l'era presa ed era rimasta una frequentazione: era un lombardo-emiliano ruvido, ma simpatico, buona forchetta, formidabile raccontatore di storie, un personaggio balzacchiano.

Per venire al dunque, e scusandomi se mi sono dilungato, gli passai La vedova per un giudizio e una possibile pubblicazione. Crovi aveva il pregio di fare molte cose contemporaneamente, che però può rivelarsi un difetto quando la fretta si fa alleata della confusione.

«È in lettura» mi disse dopo qualche mese.

«In redazione non trovano più il dattiloscritto» mi confessò quando tornai alla carica.

Siccome prudentemente ne avevo fatto una copia, gliela diedi Passò un anno, poi un giorno squillò il telefono e all'apparecchio c'era lui, la voce un po' velata: «L'ho letto, è bello, mi piace, c'è una Roma fantastica sullo sfondo, ma dammi ancora un po' di tempo, perché ho un problema».

«Editoriale».

«No, di salute, ho un tumore» fu la risposta un po' brusca, ma franca.

Sarebbe morto di lì a poco, a settantatré anni, quella che oggi è la mia età. Fine, malinconica, dell'antefatto.

***

In La vedova, che nel tempo Del Ninno ha continuato a ritoccare, fino a dargli quella sua forma definitiva che ha il suo ultimo guizzo sistematico in quell'aggettivo nel titolo che lo caratterizza e insieme lo rivela, La vedova nera, appunto, la storia si snoda in una perfetta simbiosi fra chi la anima e la città che gli fa da corona. A una Roma metà anni Sessanta, la stessa che genialmente Ennio Flaiano definì «l'unica capitale mediorientale a non avere un quartiere europeo», popolare nel suo essere provinciale, e dove le botteghe d'artigiano, le vinerie e i baretti punteggiano un centro storico che deve il suo glamour non all'opulenza delle boutiques di lusso, ma all'incanto di piazze e strade, monumenti e scorci architettonici vissuti con l'indifferenza che provoca il trovarli lì da sempre, fa da riscontro un'umanità di ex marescialli dell'Arma riciclatisi come titolari di un'agenzia investigativa, casi di corna, pedinamenti e partite di scopa per ingannare il tempo, osti senza pretese, oneste lavoratrici del sesso a pagamento, commesse e cartomanti... Così come c'è una Los Angeles chandleriana, night-club e malavitosi, detective malinconici e poliziotti in odore di corruzione, c'è una Roma delninniana indolente e un po' trasandata, tradita da un romanesco che non è un dialetto, ma la pigra arrendevolezza di chi considera l'italiano una fatica da evitare il più possibile.

Una Roma interclassista dove Ernesto Di Gianni, galoppino tuttofare dell'agenzia investigativa Italmondo, quarantenne scapolo sovrappeso e fuori forma, dal frigorifero perennemente vuoto, come in fondo è vuota la sua vita relazionale, niente amici, nessun legame sentimentale degno di questo nome, si trova alle prese con una vicenda più grande di lui. Una scomparsa che forse nasconde uno o più omicidi, servizi segreti italiani e stranieri, depistaggi...

Via via che l'indagine va avanti, Del Ninno le costruisce intorno ciò che fa la felicità del libro: l'immediatezza dei dialoghi così come dei monologhi, perché Di Gianni, come tutti gli uomini soli, è uno che riflette ad alta voce, la veridicità delle figure che la popolano, il padre e il figlio che nell'agenzia sono i suoi superiori, vecchie signore, personaggi variopinti e però realmente esistiti come quel Mister Ok che all'epoca festeggiava il Capodanno tuffandosi nel Tevere... Gli accenni al titolo di un film, di un programma televisivo, di un fatto di cronaca o di politica delineano il tempo della storia senza mai appesantirla, così come l'afa e la controra di un'estate romana, dove tutto sembra rarefarsi nell'attesa di una pioggia ristoratrice, fanno capire come anche il delitto sia un qualcosa da compiere controvoglia, costa fatica, se ne farebbe volentieri a meno...

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Conosco Giuseppe Del Ninno ormai da mezzo secolo, il che se da un lato mi rattrista, la finestra del futuro che sempre più si restringe, dall'altro mi consola sulle amicizie che sanno imporsi al tempo. Gli riconosco, e gli invidio, una qualità di scrittore puro che quelli come me, legati alla contingenza della pratica giornalistica, non hanno. Professionalmente, nella vita Del Ninno ha fatto tutt'altro, e lo ha fatto brillantemente, ritagliandosi però uno spazio privato per la scrittura, esplicitata nelle forme più diverse, dalla poesia al memoir, dalla saggistica politica alla critica cinematografica, e sempre avendo come fine ultimo il piacere e l'esigenza dell'esprimersi e non la pubblicazione. Quando e se poi questa avveniva, tanto meglio, un legittimo motivo di soddisfazione, ma niente di più e niente di meno. I motivi dello scrivere stanno altrove, hanno a che fare con un impulso intimo e del tutto personale.

Se a ciò si aggiunge una ricca vita familiare, una moglie e tre figli già in giovanissima età e ora uno stuolo di nipoti, l'ammirazione mista a stupore cresce: i miei vent'anni da disoccupato intellettuale trascorsi a fare l'alba sui divani di casa sua si concludevano con un barcollante

ritorno sul letto di casa mia, dove sarei sprofondato in un sonno di piombo. Giuseppe alle otto era già sul posto di lavoro. Come, quando e dove trovasse e trovi il tempo di scrivere, resta per me ancora oggi un mistero.

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