Passati i novantanni, per Jean-Pierre Vernant, il grande studioso degli antichi miti greci, arriva il momento di far cadere il velo che ha finora protetto la sua privacy, di attraversare le frontiere. La Traversée des Frontières è il titolo del suo ultimo libro: lultimo pubblicato (uscito lanno scorso in Francia da Seuil e tradotto questanno da Giulio Guidorizzi per Raffaello Cortina Editore: Senza frontiere, pagg. 180, euro 18, in libreria da domani) e lultimo, annuncia lo studioso, che abbia scritto e mai più scriverà.
Un testamento spirituale, dunque: rendiconto intellettuale ma anche personale rivelazione. Il segreto che contiene riguarda il suo engagement sul campo della storia e della politica. Nel 40, infatti, ventiseienne, lallora neoprofessorino di storia e filosofia militò da partigiano nella Francia di Vichy e, dal novembre del 42, assunse la direzione della Resistenza per la regione di Tolosa, dalla sua creazione e fino al termine della guerra, opponendosi apertamente a «quel tipo che mise la mia Francia al servizio della Germania nazista recitando la parte del patriota».
Non è propriamente quello che si chiama un episodio personale. E, ricordandola pubblicamente per la prima volta, Vernant esplicitamente rifiuta di definire «biografica» lesperienza quadriennale che lo vide recitare la sua parte sulla scena della storia e agire da protagonista nel cuore più drammatico degli eventi. In seguito però, riposta luniforme militare e vestiti gli abiti civili, chiusa la porta della biblioteca e trinceratosi tra gli scaffali, il maître à penser che siede ora sulla cattedra onoraria al Collège de France, ha sempre tenuto separate le due sfere dellazione politica e della ricerca accademica. «Come individuare i nessi tra due campi così diversi - si chiede, adesso che sa la risposta -: linterpretazione di testi molto antichi e limpegno nelle lotte del presente? In che cosa il grecista di oggi si riallaccia al giovane di allora?».
Eppure un punto di contatto tra i due ambiti cera fin dallinizio. Un buco sulla frontiera, aperto dal lavorìo roditore di un tarlo fino a permettere la traversata. In due sensi di marcia: «Vedo bene - dice infatti - come il mio lavoro scientifico sia stato orientato da ciò che ho vissuto in quegli anni difficili, ma si può anche seguire il cammino inverso. Cessato di essere un protagonista della storia - espressione che mi lascia scettico - anche il mio sguardo di antropologo della Grecia è cambiato».
Il tarlo era quello del senso di colpa, provato sin dallimmediato dopoguerra per essere scampato alla «bella morte», quella delleroe che nella sfida al nemico mette in gioco tutto ciò che ha: «giovinezza, bellezza, vigore, agilità, velocità». Da sopravvissuti, invece «ci si sente colpevoli: che cosa ho fatto di male - dubita ancora il vecchio Vernant - per essermela cavata? E quelli che sono caduti, perché?». Unaltra spina, però, si incuneava nel tessuto dei suoi ricordi per aprire una ferita: il rammarico (più che il pentimento), il ripensamento (più che il rimorso) per una militanza comunista da cui il professore si dice adesso del tutto ravveduto: «Non mi pento di essere stato comunista tra il 1932 e il 1939. Ma nel 39, al momento del patto tedesco-sovietico, cominciai a disapprovare; nel 1940 ero già apertamente anticomunista. Ripensandoci, però, oggi vedo chiaramente le numerose illusioni che mi facevo». Che il tempo fosse orientato verso il progresso, per esempio, o che «idee religiose e reazionarie» fossero destinate a indebolirsi: erano credenze «di uningenuità totale, completamente sbagliate».
Credenze incoraggiate dalle caratteristiche della società francese, dalleredità della filosofia dei lumi, da una tenace «cultura laica e progressista». E paradossalmente demistificate dallesperienza del passato greco e dallincontro con il mito: così come aveva orientato, eroicamente, la sua scesa in campo, lideale modello ellenico correggeva la sua concezione di razionalità illuminata in quella di un logos dal profondo retroterra mitologico. E smascherava i fantasmi delle utopie libertarie facendogli indossare la maschere tragiche del teatro che aveva drammatizzato la nascita della democrazia.
Ora Vernat, vecchio sapiente diviso Tra mito e politica (titolava nel 96, ed. Cortina, 1998), ammette tutto questo, con intonazione di intensa, umilissima sincerità. E, mosso da un pungente sentimento di malessere intimamente risolto nella coscienza, scava il varco sulla frontiera: descrivendo ancora una volta quelle antiche sagome. Achille, il guerriero dal piè veloce e dal tallone fragile che va incontro alla sua morte splendida, e Ulisse, leroe callido, curioso, virtuoso e conoscente che prosegue la sua avventura fino a Itaca e fino alla tarda età senza tradire la fedeltà al proprio coraggio. I loro profili si confondono e combaciano, nelle alterne vicissitudini di una vita trascorsa in greca compagnia con quello del loro interprete.
Agli occhi di un Vernant nonagenario - e quanto mai lucido - si confondono anche le linee della memoria personale e di quella storica, la storia contemporanea e quella, senza età, delle mitologie.
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